Traduzione dell’articolo originale: “Le Toucher Ostéopathique” Dr. Alain Cassourra. Pubblicato sul sito ‘L’Ostéo4pattes – Site de l’Ostéopathie’.
L’atto osteopatico è un dialogo silenzioso tra paziente e terapeuta, un incontro tra movimento e immobilità. Se la mano rappresenta l’interfaccia, è il tocco a definirne il soggetto: la sua natura, qualità e profondità. Dedicarvi un momento di riflessione è, quindi, essenziale, e ringrazio Jean-Yves Maigne per avermi dato l’opportunità di farlo. L’argomento è affascinante, e mi avvicinerò ad esso senza la pretesa di rappresentare l’“osteopatia tradizionale”.
L’osteopatia tradizionale, quella di Still, per quanto ne sappiamo, dedica poca attenzione al concetto di “tocco”. In alcune sue parti, ad esempio, Still consiglia di approcciarsi all’addome con il palmo della mano, evitando la pressione delle dita sui tessuti molli, un suggerimento che rimane di per sé semplice e diretto. Sutherland, invece, ci incoraggia a essere sempre più delicati, “come un uccellino su un ramo”, mentre Rollin Becker offre una riflessione significativa: “La palpazione è davvero un’arte che si insegna a se stessi”, riconoscendo così il carattere profondamente individuale del tatto e la necessità di un percorso personale per svilupparlo e comprenderlo.
Parlerò dunque a titolo personale, attingendo dal mio background e consentendomi di guardare anche verso altre pratiche.
Per toccare cosa
Nella pratica professionale, gli obiettivi variano a seconda del professionista. Ad esempio, il medico manuale si concentra sulla ricerca di tensioni muscolari, punti trigger, teno-cellulomialgia, palpa i tendini, i legamenti, i muscoli, i processi spinosi, le articolazioni e anche i nervi, senza enfatizzare particolarmente la limitazione della mobilità. Dall’altra parte, l’osteopata strutturale mette in primo piano la ricerca del movimento, compresi i cosiddetti movimenti “minori”, esplorando anche altre strutture come fegato, colon, stomaco, prostata, rene, utero, vescica e altri visceri accessibili a una mano esperta. Questo tipo di osteopata va oltre, cercando persino di percepire il movimento del polmone o del cuore attraverso il torace. Al contrario, l’osteopata craniale non esita a esplorare la “dura madre”, il liquido cerebrospinale, il sistema nervoso centrale, percependo ritmi, ritenzioni, punti di immobilità ed espansioni.
Oltre alla varietà delle strutture e dei movimenti trattati, emergono due distinti approcci nel tocco osteopatico: quello “volontario”, che esplora, mobilizza e sfida, e quello “involontario”, che accoglie, supporta e rivitalizza. Come citato da T.S. Eliot, “Nel punto immobile è la danza, ma senza fermarsi né muoversi”, il che per alcuni rappresenta la capacità di percepire la quiete della vita stessa. La distinzione tra percepire la struttura o la vita riflette due obiettivi differenti che portano inevitabilmente a esperienze contrastanti. Nella pratica quotidiana, ognuno ha il diritto di guardare con una certa diffidenza il collega che adotta un approccio diverso, toccando con un’altra intenzione e un diverso sentire.
Il tatto: un’illusione
Fin dall’inizio, il tatto è stato un problema per me. Mi ero rifugiato in un sterile “non sento niente”, osservando con un misto di dubbio e ammirazione coloro che affermavano di percepire sensazioni. La mia esperienza del sentire è poi maturata attraverso un contatto più consapevole. Da quel momento in poi, il tatto è diventato essenziale: una ricerca costante, un obiettivo da perseguire. Venticinque anni dopo, riconosco l’illusorietà di quell’aspirazione iniziale. Ora comprendo che non esiste un tatto unico, ma una molteplicità di modi di sentire, ognuno richiedente un adattamento, proprio come il linguaggio, alle diverse situazioni. Il tatto non può essere fisso né invariabile, perché è un significato in sé, e come tale non può aspirare a un’assoluta oggettività.
La nostra percezione del mondo non è affatto una rappresentazione oggettiva. Le neuroscienze ci dimostrano come sia il cervello a costruire il nostro universo mentale, e come i sensi possano ingannarci nella percezione della realtà. Se consideriamo l’osteopatia una scienza, come possiamo conferire autorevolezza a un esame palpatorio? Una palpazione dovrebbe essere chiaramente definita e la sua riproducibilità valutata in modo rigoroso per garantirne l’affidabilità.La medicina, così come l’osteopatia, richiede test, diagnosi e manipolazioni che siano incontrovertibili e credibili. Mi sorprende sempre osservare come la medicina riponga fiducia in ciò che può vedere – raggi X, scanner, risonanza magnetica – ma non in ciò che può toccare. Quando gli osteopati cercano riconoscimento scientifico, l’arte del tatto, così complessa, poliedrica e soggettiva, sembra non avere più spazio. Tuttavia, sono convinto che il tatto rappresenti un linguaggio reale e profondo. Sebbene sia intrinsecamente soggettivo, esso costituisce il fondamento della nostra pratica. È il tatto a spingere i confini, ad aprire nuovi ambiti di applicazione e a permetterci di comprendere l’essere umano in tutte le sue dimensioni.
Il tatto: un’arte
Still definiva l’osteopatia come una scienza, un’arte e una filosofia. Senza dubbio, il tatto è parte integrante di quest’arte, come in tutte le arti. Prendiamo ad esempio la pittura impressionista, caratterizzata da un approccio essenzialmente manuale e molto “tattile”, grazie ai suoi tocchi frammentati. La superficie dell’opera, irregolare, invita lo spettatore a interagire, quasi a toccarla. Se il tocco testimonia il gesto dell’artista, esso invita anche il gesto dello spettatore. È attraverso questa interazione che si sviluppa il dialogo.
Nell’osteopatia accade la stessa cosa: è attraverso il tatto che si instaura una comunicazione profonda. La pianista Marguerite Long affermava: “La suprema perfezione della mano si otterrà solamente uscendo dal puro meccanismo e avvicinandosi alla fase sensibile della sua missione: il tocco, una vasta tavolozza espressiva che il pianista utilizza a sua discrezione, in base allo stile delle opere e alla propria ispirazione”. Così, il tocco che va oltre la mera tecnica dà vita all’opera; un principio che vale anche nell’osteopatia.
Come metafora conclusiva, consideriamo l’arte equestre. Questo ambito è particolarmente interessante, poiché il rapporto tra uomo e cavallo non è necessariamente a favore dell’uomo. Infatti, il cavallo può sempre avere l’ultima parola, grazie alla sua forza superiore. Questa dinamica è spesso simile a quella che si instaura con i nostri pazienti, sia che pratichiamo un’osteopatia ‘volontaria’ o ‘involontaria’.
Nell’equitazione, il dialogo avviene attraverso le gambe e le mani, richiedendo un tocco così delicato da variare dal peso del corpo sulla sella a uno sfioramento con la gamba o a una leggera pressione sulle redini. Se il dialogo è ben condotto, il cavallo, nonostante la sua considerevole massa, segue i nostri comandi con grazia. Allo stesso modo, nell’osteopatia, basta qualche grammo applicato nel modo e nel momento giusti – o anche solo un’intenzione – per risolvere le disfunzioni.
Quali sono, dunque, gli intervalli e le variazioni del tocco osteopatico? Si passa dalla durezza alla leggerezza, dalla profondità allo sfioramento, dalla sintonizzazione all’opposizione, dal movimento veloce a quello lento, dallo srotolamento all’immobilità, dal contatto puntiforme all’abbraccio avvolgente, dal caldo al freddo, dal secco all’umido. Queste variazioni, tuttavia, non si limitano a criteri di natura fisica; il tocco si rivolge anche all’emozione.
Ritornando all’immagine del cavaliere, il suo cavallo può manifestare una gamma di stati d’animo: può essere aggressivo, depresso, vendicativo, felice, canzonatorio, ipersensibile, apatico, o spaventato. In questo rapporto, privo di parole, il cavaliere deve saper percepire i problemi emotivi del suo animale e rispondere in modo adeguato, utilizzando un tocco che si adatti a ciascuna situazione. Se il tatto si rivolge sia al fisico che all’emozionale, coinvolge anche il pensiero. Il cavallo può trovarsi in uno stato di rifiuto, non accettazione, opposizione o sfiducia, che riflettono una predisposizione mentale. In questo contesto, attraverso la sua presenza e un tocco adeguato, il cavaliere cerca di ristabilire un rapporto armonioso.
Allo stesso modo, nei nostri studi incontriamo problemi simili con i pazienti. Per rispondere al meglio, la nostra mano può esprimere gioia, freddezza o entusiasmo, ma anche acutezza, accettazione e riconoscimento. Le variazioni nell’arte del tatto non sono dunque solo fisiche; esse abbracciano anche dimensioni emotive e mentali, creando un’interazione complessa e profonda.
Il tocco: un dialogo
Lo abbiamo già visto nella nostra presentazione. Accordare un posto all’arte del tatto ci porta a considerare l’atto terapeutico come il frutto di un dialogo e non quello della fredda analisi di una situazione in un dato momento. Infatti, stiamo abbandonando la medicina delle evidenze, stiamo entrando nel mondo quantistico dove la presenza dell’osservatore cambia la natura dell’oggetto osservato. Man mano che il dialogo si evolve nel tempo, durante la stessa consultazione, il tatto si evolve. La pelle è un’interfaccia, un’area di scambio di informazioni. Il paziente, il tocco, diventa colui che tocca ed il terapista, viene toccato. Da quel momento in poi, c’è un incontro di due corpi fisici, ma anche di due energie, di due spazi emotivi, di due spazi “mentali”. Uno parla all’altro e ognuno rivela una parte di ciò che è. Still ha detto: “Scopro nell’uomo un universo in miniatura. Trovo la materia, il movimento e lo spirito”. Considerava l’uomo “trino” con la sua dimensione spirituale, mentale e fisica (uomo trino: termine usato da sant’Agostino (354-430) che si interrogava sul principio della Trinità, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Spirito. Elliot Coues (1842-1899) ha ripreso questo principio nell’uomo, con il suo corpo fisico, la sua anima e il suo spirito. Allo stesso modo Still considera l’uomo nelle sue tre dimensioni: fisica, mentale e spirituale). Qui esporrò due pensieri molto personali: innanzitutto nel rapporto paziente-osteopata l’interfaccia non si limita per me al contatto fisico di due epidermidi, anzi direi che questo contatto fisico diretto non mi sembra essenziale per a stabilire un dialogo attraverso il tatto. Boris Dolto in “Il corpo nelle mani” scrive: “Se le parole possono essere toccanti è perché i gesti delle mani possono essere eloquenti. Mi sembra che al di là del gesto, anche nella sua immobilità, il tocco sia alquanto eloquente.
Tocco: criteri soggettivi e oggettivi secondo Pierre Tricot (Osteopata)
Pierre Tricot le ha definite con chiarezza, e hanno il merito di offrirci un primo approccio molto didattico, un percorso adatto a tutti. Da lì in poi il viaggio sarà del singolo. I criteri soggettivi sono la presenza (tra il radicamento e il lasciare andare), l’attenzione e l’intenzione. I criteri oggettivi sono densità, tensione e movimento.
La presenza suggerisce un allineamento tra l’abbandono e il risveglio, l’esserci, coscienti nello spazio-tempo, nell’istantaneità. L’attenzione definisce un campo, uno spazio virtuale di percezione, una proiezione in un dato luogo, “Mi concentro su…“, mentre l’intenzione colora questa proiezione, le conferisce una qualità. Questi criteri soggettivi possono essere criticati. Alain Roques parla di non intenzione. Dice questo: “Quando l’osteopata ha varcato le barriere di penetrazione tissutale, quando ha contattato la regione sofferente, la difficoltà consiste nel non interferire nella privacy del paziente, nel non essere un elemento di disturbo, ma solo un catalizzatore. La neutralità è quindi essenziale… L’osteopata mette così in funzione il corpo del paziente”. Altri, come José Puren, pensano che “È tutta una questione di intenzione”. Il paradosso difficilmente mi spaventa, mi ritrovo in questi due approcci opposti.
Comunque, la questione della presenza, dell’attenzione, dell’intenzione, deve essere posta. Interroga il terapeuta circa il posto che occupa. I criteri oggettivi portano a considerare la densità, la tensione e il movimento dei tessuti. Sono sufficienti per definire l’approccio tissutale di Tricot. Ma in altri modelli, potrebbero essere proposti altri criteri palpatori, come profondità, superficie dell’interfaccia, mano che invia o riceve …
Il tocco e i modelli osteopatici
Ogni corrente osteopatica si riferisce a un modello, e in questo il tatto ha un posto speciale poiché condiziona ciò che sentiamo. Ci si può chiedere se il modello (la concettualizzazione dell’atto osteopatico, la rappresentazione che se ne ha) predefinisca ciò che sentiamo. Infatti, la mente analizza, confronta, separa, fa affidamento sull’esperienza, sulla cultura, la religione, la filosofia, l’educazione… Se struttura il pensiero, spesso predetermina delle possibilità. Può così bloccarci in una sensazione limitata e predefinita ancor prima di essere stata sperimentata. Ho passato due anni a non sentire il movimento delle sacroiliache, quindi era sicuro che ciò fosse impossibile. La mente può chiudere lo spazio palpatorio. Al contrario, ci si può chiedere se la sensazione, e quindi il tatto, non sia all’origine della concettualizzazione.
Quando Sutherland sviluppava il suo meccanismo respiratorio primario, sembra che l’interazione tra modello e sensazione abbia funzionato in entrambi i modi. Tutto è iniziato con un’idea davanti a un cranio scomposto, forse rafforzata dalla lettura di Swedenborg, poi l’auto-sperimentazione basata sulle percezioni ha fatto il resto. Queste interazioni sono reversibili e tatto e schemi sono indiscutibilmente collegati.
Suggerisco qui una lettura personale: Il modello strutturale volontario ci porta a un tocco fisico potente, che mobilizza le strutture, a volte alla ricerca del dolore. Il modello cranico meccanicistico offre sempre una sensazione densa, ossea e membranosa. L’osteopatia tissulare di Tricot si basa su un tocco sintonizzato e sincronizzato, il meccanismo respiratorio primario di Sutherland o il meccanismo involontario di Becker, ci portano a un tocco fluido e ritmico. Il modello elettromagnetico di Varlet offre un tocco a filo con la superficie, quello basato sul “pensiero creato” un tocco virtuale, quello basato sull’energetica, un tocco luminoso. Il vantaggio è che ce n’è per tutti i gusti, tutte le credenze, tutti i sentimenti. Il pericolo può insorgere quando una corrente pensa di avere l’unica verità: il modello e il tocco giusto.
Il tocco e il terapista
Da Tricot a Roques, ci sono molti che sottolineano la qualità della presenza del terapeuta e il lavoro che ne è alla base. Mi piace fare riferimento a Rollin Becker. Sto facendo una scorciatoia che potrebbe scioccare i puristi: accetta il meccanismo vivente che è in te e nel tuo paziente, sviluppa le tue capacità di palpazione, il corpo è più intelligente di te, quindi impara a imparare da esso. Ma Becker non si ferma qui, insiste sulla necessità di un lavoro radicale su se stessi: “La prima cosa da cambiare sei tu!”, e poi dà il colpo di grazia: “Abbandona il tuo ego!”. Mi piace questa ingiunzione rivolta a tutti gli osteopati. Ne abbiamo davvero bisogno, e alcuni più di altri!
Tocco e Sé immobile
Il tatto nasce dall’interno, da qui l’importanza della presenza. Nell’apprendimento il problema viene spesso messo sottosopra, plasmiamo la mano (o il gesto), sperando che il resto venga da sé. Dato una tecnica osteopatica di successo è una tecnica estetica, lo studente si applica, cerca di riprodurla, ma la bellezza del gesto non è nell’imitazione, ma nella sostanza. Allo stesso modo per il tatto, la sua accuratezza non si limita alla pressione esercitata, quantificata in tot grammi, o a criteri fisici qualunque essi siano. Nella medicina tradizionale indiana, i chakra delle mani sono legati a quello del cuore. Non ci tocchiamo con le nostre mani ma con la benevolenza del cuore!
Lascio che WG Sutherland concluda, sottolineando la dimensione spirituale del suo approccio: “Mi avete visto guarire mediante l’applicazione delle dita che vedono, che pensano, che sentono e che sanno. Dita che cercano di allontanarsi dal tocco fisico per mantenere solo il tocco della conoscenza. Per conoscenza non intendo le informazioni ottenute dai sensi fisici, ma qualcosa che si acquisisce, al contrario, allontanandosi il più possibile da questi sensi. Ed è stato davvero il mio sforzo, prendere le distanze da questi sensi fisici il più possibile, fino al punto in cui si inizia a sperimentare il Sé immobile. Quindi immobilizza i tuoi sensi fisici e sii il più vicino possibile al tuo Creatore. Quindi renditi conto di cosa significa il respiro della vita. È su questa strada che ho cercato”.
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