Alain Abehsera D.O., M.D.
Traduzione a cura di Andrea Gasperoni Ferri, Osteopata DO – www.movimentopresente.it

Articolo pubblicato su: https://www.osteopathie-france.net/osteopathes/articles-memoires-theses/2891-le-futur-du-structurel-et-du-fonctionnel#du-commencement

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La tradizione ci ha lasciato con due grandi famiglie di tecniche osteopatiche: lo strutturale ed il funzionale. La scelta dei nomi è interessante: riprende i due termini del principio più conosciuto della nostra professione “struttura governa funzione” e del suo simmetrico “funzione governa struttura”.

Questo accoppiamento pone diverse questioni: storiche, filosofiche, fisiologiche e molto semplicemente… tecniche. Nelle scuole, nella professione, queste etichette vengono spesso usate senza che si sappia troppo a cosa facciano in realtà riferimento. In questo articolo, partendo da un’analisi del funzionale, l’autore spera di portare allo scoperto i principi alla base di questi due approcci.

Per giungere infine a questa conclusione: il nuovo osteopata del futuro, quello che noi ci auguriamo, sarà “bravo” nello strutturale tanto quanto nel funzionale. Un tale osteopata non avrà gli stessi limiti clinici di coloro i quali attualmente sono specialisti in una o nell’altro approccio. Lontano dal possedere lui stesso questo equilibrio, l’autore traccia attraverso la sua biografia, le sue esperienze, le sue riflessioni, il perché di una tale affermazione. Un testo dedicato agli studenti in osteopatia e agli osteopati che si sentono ancora studenti o che hanno il piacere di ritrovare delle esperienze della loro scolarità.

L’inizio…

Per cominciare utilizzerei qualche souvenir della mia “infanzia osteopatica”, parliamo quindi degli anni 1971-1974. Gli ‘strutturali’, o gli ‘scrocchiatori’, erano alla lunga i più numerosi. C’era allora qualche decina di osteopati in Francia, e qualche centinaio di “kinesi-osteopati” che avevano sentito parlare o imparato a praticare qualche manipolazione. In Inghilterra, dove avevo studiato, la scuola di osteopatia era e continua tutt’ora ad essere essenzialmente ‘strutturale’, come la quasi totalità degli osteopati inglesi. Il funzionale veniva insegnato in corsi post-graduate, riservati ai più esperti. Il craniale? Per apprenderlo bisognava partecipare a seminari ultra selettivi che avevano luogo in USA.

L’osteopatia era all’inizio, e prima di tutto il resto, le Leggi di Fryette (1). E i veri artigiani, i più grandi, erano quelli che sentivano le lesioni di primo e secondo grado – si parlava anche di terzo grado – e sapevano manipolarle, ricordando un po’ i gradi (le cinture) delle arti marziali. La questione dell’oggettività in quello che facevamo non si poneva neppure. I ‘Maestri’ sentivano una ‘cosa’ che si chiama lesione, sapevano distinguere le più importanti da quelle accessorie, e tra queste la lesione primaria. Una volta trovata, una volta eseguiti calcoli secondo parametri complessi, riuscivano a correggere o aggiustare la ‘cosa’ in questione. Lo strutturale era logico, concreto come si dice in gergo.

I medici, a parte qualche raro ortopedico, non marciavano su questa strada ed il terreno era perciò libero (2). L’osteopatia, definita come l’aggiustamento delle ‘strutture’ fuori posto era – potenzialmente – una scienza esatta. Nessuno tra noi dubitava che fosse il rimedio sovrano per lombalgie e sciatalgie. Quante volte, da giovani studenti, siamo rimasti affascinati dal tale professore che, davanti ad un paziente dolorante, riusciva a trovare la vertebra giusta da manipolare tra tutte le strutture contorte! Chi avrebbe mai pensato che una sciatalgia poteva scomparire dopo un thrust su C2? Ed un’altra con C4, oppure D3? Ci dicevano che queste torsioni molto distanti dalla zona lombare erano la vera causa della sciatalgia, una vera magia, oltretutto razionale. E questo accadeva al posto di pericolose iniezioni di cortisone che erano, questo ci veniva detto, molto spesso inefficaci o al massimo ‘polvere sotto al tappeto’. C’era un aspetto negativo in tutto questo: riguardo a ciò che non era dolore, l’osteopatia strutturale sembrava un po’… leggera. Nei vecchi testi si leggeva chiaramente che Still o Littlejohn trattavano ogni sorta di malattia, dal diabete al cancro, e dato che nessuno sapeva riprodurre ciò che facevano, erano per noi come delle leggende…. Certuni asserivano di trattare una polmonite con l’osteopatia strutturale ma non conosco personalmente nessuno che avesse osato prendere in carico, senza antibioticoterapia, un tale caso.

Esagerare la lesione

Durante questa educazione classica alcuni di noi sentirono parlare, sopratutto attraverso degli articoli, dell’esistenza di un’osteopatia funzionale. La prima caratteristica era, cosa rivoluzionaria, che al contrario dello strutturale che va ‘contro’, il funzionale va ‘con’ la lesione, esagera la lesione, come si diceva. Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di questa inversione. Merita che se ne discuta e che si impari a praticarla. L’approccio funzionale era anche un ‘piglia tutto’ dove potevano essere inserite tutte le tecniche che non somigliavano allo strutturale, in cui non si faceva ‘scrocchiare’ perchè non era letteralmente possibile farlo: cranio, visceri, vasi, ecc… Non era un mettere insieme cose intelligentemente, ma un andare per esclusione. Bisognerà un giorno scrivere la storia di tutte queste tecniche: craniosacrale, tecnica funzionale di Hoover, miotensive di Mitchell, approccio di Lawrence H. Jones, di R. Becker. Sono tecniche a volte molto differenti tra loro, ma si è convenuto nel metterle assieme nello stesso contenitore ‘funzionale’. Rappresentavano una ventata di freschezza per tutti quelli tra noi che si sentivano come condannati, con lo strutturale, a trattare delle lombalgie e delle sciatalgie per il resto dell’esistenza. Il funzionale è stato anche un’apertura verso il cranio, e dunque al cervello, ai visceri, e a tutte quelle malattie per le quali lo strutturale sembrava poco adatto, sebbene i nostri ‘miti’ affermassero il contrario, quando si sentiva dire che da qualche parte in Francia o negli USA esisteva un osteopata che manipolava risolvendo la tale malattia. A parte i problemi di dolori dell’apparato muscoloscheletrico, per quanto riguarda lo strutturale il resto erano solo voci o leggende.

Homo sapiens osteopathicus manipulensis

Sono trascorsi trenta o quarant’anni e ad oggi in Francia gli osteopati si contano a migliaia. Cosa ne è ora dell’antica distinzione? Mi piacerebbe che uno studente di osteopatia scegliesse come soggetto per la sua tesi: la proporzione attuale degli oteopati che praticano in maniera esclusiva l’una o l’altra forma di manipolazione, o entrambe. Il mio sentito, senza averne le cifre, è che lo strutturale è in declino e sta via via scomparendo per lasciare il posto alle tecniche dette funzionali o energetiche. Questo è quello che vedo nei miei incontri con i professionisti o nei soggetti scelti per le tesi. Forse mi sbaglio, ma credo che l’homo osteopathicus manipulensis esclusivo si stia estinguendo, sul medio e lungo termine. Fatta eccezione per qualche scuola di irriducibili, sembrano diventare poco a poco anacronistici.

Ci ritroviamo dunque nella situazione opposta a quanto accadde agli albori. A cosa può essere attribuita questa estinzione progressiva della specie? Mi vengono in mente diverse ragioni. Il campo dell’ortopedia non è più libero come prima, è ora occupato anche dai medici e dai kinesiterapeuti. Gli osteopati, scegliendo l’approccio funzionale, hanno fatto uno scatto in avanti. Il viscerale, il somato-emozionale, il craniale, sono tutti approcci abbastanza particolari propri dell’osteopatia che i ‘concorrenti’ naturali non hanno ancora preso. Sono queste delle aree dove il giovane osteopata può  fare della ‘medicina generale’, aree che lo fanno uscire da un quadro strettamente muscoloscheletrico. È anche il fatto che l’osteopatia ha trovato, negli ultimi anni, un raro consenso nel mondo della pediatria. Le ostetriche sono la professione medica più cosciente dei benefici di questo approccio che raccomandano. E bisogna dire che in questo campo lo strutturale, inteso come ‘manipolazioni’, è poco praticato. Ciò non significa che le tecniche strutturali non esistano in questo ambito, ma il vero re è l’approccio craniale. Altre ragioni dell’estinzione: si potrebbe citare la propensione dei tecnici dell’approccio funzionale a presentarlo come approccio ‘globale’, ‘rispettoso dei tessuti’, ‘ricco di princìpi’, ecc… tutte qualificazioni che evidentemente dipingono lo strutturale come ‘parziale’, ‘irrispettoso dei tessuti’, ‘violento’, ecc… Ed infine, l’impressione che lo strutturale provenga dalla preistoria, da un’unica preoccupazione per il dolore, che sia grezzo in confronto ad un funzionale che ha sviluppato un vocabolario più sofisticato e fine sulla salute in generale. E non bisogna neppure dimenticare il pubblico che predilige di gran lunga il funzionale, ritenendolo più rispettoso. Facciamo però un’eccezione per gli sportivi che spesso vanno incontro a dei traumi per i quali le manipolazioni e lo strutturale sono ancora accettate e ricercate.

Ci fermeremo qui in queste distinzioni all’interno della professione. Occorrerebbero dati e cifre da commentare. Nonostante ciò, a priori possiamo affermare quanto segue: ne’ lo strutturale, ne’ il funzionale, hanno ancora apportato prove cliniche che potrebbero attestare la superiorità di un approccio sull’altro. L’osteopatia d’altronde ha già troppi problemi nel portare prove di efficacia in generale. Una superiorità del funzionale sullo strutturale o viceversa non è stata stabilita ad oggi, lo ripeteremo incessantemente, per giustizia storica e scientifica. La sofisticazione del discorso biomeccanicista nello strutturale e il discorso sulla globalità nel funzionale, non hanno certo spinto oltre i limiti della nostra efficacia clinica. Gli osteopati, qualunque sia il loro approccio, trattano tutti e più o meno le stesse patologie negli adulti.

Le mie distinzioni di gioventù tra ‘strutturale’ e ‘funzionale’

1) In osteopatia funzionale, l’intervento dell’operatore è minimale e quello dell’operatore massimale. L’operatore si pone in ascolto dei tessuti. In strutturale, è il contrario. L’intervento del paziente è minimale e quello dell’operatore massimale: si invita il paziente a rilassarsi, a non agire, perché è l’operatore ad agire.

2) Nello stesso modo in cui dei meccanismi complessi mantengono la salute e l’equilibrio di tutta la regione, si può supporre che siano gli stessi meccanismi a mantenere la lesione osetopatica quando si verifica. Altrimenti scomparirebbe! Possiamo allora dire questo: le tecniche funzionali hanno come vocazione il modificare le relazioni tissulari molto lentamente, così lentamente che i meccanismi che mantengono la disfunzione non riescono a percepirlo. Mentre l’osteopatia strutturale, le tecniche HVLA, le modificano molto velocemente, al punto che i meccanismi di protezione non hanno il tempo di accorgersene.

3) La nozione di esagerazione della lesione meriterebbe tutta una discussione riguardo al suo utilizzo in entrambi gli approcci. In linea di principio, lo strutturale va ‘contro barriera’ ed il funzionale si allontana nella stessa direzione della barriera (tecnica funzionale di Hoover, ripresa da L.H.Jones).

L’inevitabile ritorno dello strutturale

Non posso parlare in nome di tecniche che non pratico e delle quali non mi ritengo un maestro. Preferisco raccontare come esse siano sorpassate, e sulla base dei miei quarant’anni di assidua frequentazione di questi argomenti, mi permetto di dire quale sarà l’auspicabile evoluzione della tecnica osteopatica. Lo farò cercando di definire al meglio qual’è l’essenza dell’approccio funzionale, quello che io pratico. Per esclusione, in seguito e brevemente, parlerò di quello che potrebbe essere di appannaggio dello strutturale. Infine, il mio rispetto per il passato mi obbliga a credere che il confronto sarà un 50/50. Una volta definiti correttamente, entrambi gli approcci sono necessari. Io credo che il declino attuale dello strutturale non è dunque che una fase storica, un temporaneo ritirarsi per far sì che possano affermarsi anche gli approcci funzionali globali. Una volta che questo accadrà, il ritorno dello strutturale sarà inevitabile. Per l’osteopatia verranno i tempi di raccolta dei frutti, tempi di grandi balzi in avanti nella clinica, verranno quando lo strutturale ed il funzionale saranno forti ed in equilibrio, insieme.

Confessioni di uno strutturalista incompetente

Come studente in osteopatia ho imparato lo strutturale ma in realtà non l’ho mai applicato. In primo luogo non arrivavo a fare una diagnosi. Quando a scuola facevo i test di mobilità dovevo sforzarmi per scegliere in quale direzione una data struttura non si muovesse. Rimanevo sempre stupito nel vedere come gli altri fossero così sicuri di se’ stessi e della loro scelta. Ma in realtà lo erano veramente? Io so che per far piacere al prof e per non passare per idiota di fronte alla classe, o ancor peggio per non rallentare la classe, dicevo che sentivo chiaramente se una struttura si muovesse meno a sinistra o a destra, sopratutto se il prof passando da me lo avesse detto. In realtà non sentivo nessuna differenza, non ero per niente oggettivo e non osavo dirlo. Come evidenziato dalla sicurezza del prof che dopo aver passato le sue mani, faceva oscillare il dorso del paziente a destra e sinistra, trovava il livello con il minor movimento – cosa impossibile per me – poi trovava il ‘come’ si muoveva meno – altra cosa impossibile per me – infine trovava il modo giusto per aggiustare la cosa – terza impossibilità per me – e finalmente, far sentire a tutti come si muovesse meglio nell’insieme e nel dettagio dopo la manipolazione – quarta cosa impossibile sempre per me. Si sentivano dei ‘ohh!’ e degli ‘ah!’ in seguito a queste manipolazioni ed io non potevo fare a meno di unirmi al coro. Ma non voglio con questo insistere ad oltranza sulla mia inettitudine nello strutturale: riuscivo a fare bene il TOG, dando una buona impressione di ritmo, di maestria nei movimenti, di una buona presa, e potevo comunque fare manipolazioni e far ‘scrocchiare’… Ma in realtà non avevo idea di come trovare la lesione primaria tra le centinaia di articolazioni del corpo e come determinarne i parametri, ed infine come correggerla. E come iniziai a raggiungere un po’ di notorietà, presi l’abitudine di far sembrare che sentissi tutto, come gli altri.

Ho dunque dovuto rinunciare all’osteopatia strutturale ammettendo la mia incompetenza. E siccome non sono bravo in alcun campo della meccanica (riparazioni di ogni genere) e che quelli bravi in strutturale erano anche bravi nelle riparazioni, ad esempio ad aprire una porta bloccata, un motore di automobile, tutte cose che io non sapevo fare, la mia incompetenza totale in ambiti meccanici sembrava sufficiente affinché io rinunciassi. La mia scoperta degli approcci osteopatici detti ‘funzionali’ fu dunque un vantaggio. E posso dire che sono l’incarnazione di quello che all’epoca era un caso frequente: un ‘mancato’ strutturale diventato funzionale. All’epoca alcuni chiamavano gli osteopati che utilizzavano l’approccio craniale degli ‘sciampisti’, ragazzi incapaci di fare il vero e difficile lavoro dell’aggiustamento vertebrale che si accontentavano di massaggiare il cuoio capelluto, pretendendo persino di far muovere l’LCR. Il funzionale era anche il rifugio per le donne, deboli per definizione e quindi incapaci di far ‘scrocchiare’ come si deve. Bisognava pur trovar loro una nicchia…! Queste critiche non erano totalmente false, almeno nel mio caso. È vero, per riprendere Coluche, che il funzionale è stato una porta aperta a tutti, si poteva gioiosamente fare a meno di tutta la biomeccanica, di tutto il saper fare tecnico dicendo che bisognava solo seguire i tessuti. Mi ricordo di momenti, mentre ero studente, in cui utilizzavo definizioni molto vaghe di lesione osteopatica in funzionale, per nascondere la mia totale ignoranza circa ciò che accadeva meccanicamente. Ma a parte queste confessioni devo dire che l’incontro con il funzionale è stato un grande avvenimento nella mia vita professionale e nella mia vita in generale. Le mie prime esperienze furono deludenti, per esempio, non ero veramente in grado di sentire i limiti dei movimenti delle ossa del cranio. Vedevo bene, ad esempio, le differenze ‘strutturali’ nella posizione delle ossa temporali, ma da questo a sentire le limitazioni di mobilità, le compressioni, gli ‘strains’… Ed ecco che anche qui quando il prof diceva di sentire una fase di ‘flessione’ del movimento respiratorio primario, io dicevo: ma si! certamente! anch’io la sento! Non riuscivo a fare più ne’ strutturale ne’ funzionale quando mi si chiedeva di fare del funzionale che imitasse lo strutturale, sarebbe a dire che gioca la carta dell’oggettività.

Mi era piaciuto scoprire le tecniche di Mitchell o di Jones. Avevano una logica, una maniera di aggirare l’oggettività di ciò che percepisce l’operatore. Con Mitchell dovevamo sentire delle differenze posizionali, tutto sommato facili da percepire, e la tecnica era costruita in rapporto a ciò che si aveva visto e toccato, con risultati anche sorprendenti. Magari non dal punto di vista clinico ma sul piano meccanico: le cose avevano effettivamente ripreso a muoversi dopo una seduta, la colonna era più dritta. Jones aveva invece trovato un’altro modo per aggirare la necessità di palpare le componenti di una lesione: ad ogni articolazione corrisponde una zona particolarmente dolorosa, ed in relazione ad essa si cerca la posizione di correzione che fa diminuire o scomparire il dolore (3). Ciò che mi annoiava di queste tecniche, era la loro ripetitività. Offrono una routine, una griglia di lettura attraverso la quale far passare il paziente. E questo mi aveva stancato, non ne vedevo più il potenziale medicale in generale. Sembravano essere orientate solamente ai problemi del sistema muscoloscheletrico.

La ‘giusta misura’ tissulare

La scoperta di Rollin Becker fu il punto di svolta della mia vita professionale dal punto di vista della tecnica. Descriveva ciò che mi sembrava essere una vera lettura delle tensioni di tutti i tessuti: muscoli, vasi, visceri, ecc… FInalmente una tecnica universale! Non era neppure routinaria dato che ogni paziente aveva il suo ‘schema interno’ che variava da un momento all’altro. Quanto alla soggettività del percepito, non mi ponevo semplicemente la questione. Ciò che sentivo andava sempre bene, proveniva dai tessuti e non doveva essere comparato con un altro operatore. Il mio incontro con R. Becker fu difficile. Ero andato a ringraziarlo per avermi insegnato finalmente quello che cercavo, e lui mi rispose che non avevo capito i suoi scritti. Più tardi, dopo aver ricevuto dei trattamenti da dei praticanti ortodossi dell’approccio beckeriano, mi resi conto che non avevamo effettivamente capito la stessa cosa. Il loro approccio è ampiamente descritto nei libri, e non starei ora a ricordarlo. Ma posso dire brevemente che ciò che avevo capito era, dopotutto, qualcosa di molto semplice. Quando poniamo le mani sopra qualcuno si può sentire tra le mani una sorta di ‘campo’, nel quale appaiono dei movimenti lenti. Questi movimenti continuano fino a quando, ad un certo punto cessano, in quello che viene chiamato ‘still point’ – punto di quiete – durante il quale è possibile sentire una ‘fonte’ tissulare, una modificazione del campo tra le mani. In seguito a questo appare un ritmo lento e simmetrico. Questo era uno schema universale. In ogni persona, indipendentemente da dove mettessi le mani, si poteva sentire quanto segue: 1) movimenti lenti e asimmetrici, 2) punto di quiete, 3) movimento lento e simmetrico (o ritmo). Semplice, efficace, meraviglioso e riproducibile. Non volevo altro all’epoca, non sentivo la necessità di altre tecniche osteopatiche. Era della giusta misura per i tessuti. Erano finiti i tempi degli altri approcci dove ti veniva detto prima cosa bisognava fare. Per definizione, non vedevo più cosa potesse apportare lo strutturale dinanzi ad un tale rispetto ed ascolto dei bisogni di tutti i tessuti. È vero che si poteva ancora andare a pescare nel museo delle tecniche qualche manipolazione strutturale come il drenaggio epatico o la pompa toracica, da utilizzare in casi particolari, ma lo scioglimento delle tensioni percepito durante lo still point è qualcosa di unico ed incomparabile… E questa volta i risultati parlavano chiaro: la ‘giusta misura’ tissulare aveva degli effetti notevoli.

Storia e prestoria dell’osteopatia

La parte della mia biografia osteopatica che segue sarebbe troppo lunga per essere raccontata in questa sede. Riassumerò dicendo che è seguito un periodo di diversi anni di sorprese, di febbre dell’esploratore per un continente sconosciuto, di delusioni altrettanto fenomenali. In un primo momento credevo di aver trovato la panacea osteopatica e medica. Lo scioglimento delle tensioni mi indicava, ogni volta, che la qualità della circolazione sanguigna e nervosa, la qualità delle tensioni tissulari, avevano cambiato in meglio migliorando tutti i problemi presenti. Non vedevo alcun limite per una tale tecnica. Nell’ambito muscoloscheletrico accadevano spesso dei veri ‘miracoli’. Dentro di me – ed a volte lo facevo capire quando insegnavo – l’osteopatia strutturale era stata definitivamente sotterrata da questo approccio. Non lo dicevo apertamente per rispetto ai ‘vecchi’ che avevo conosciuto e che mi avevano insegnato tanto, e per il fatto che sapevo bene di essermi rivelato un incapace in ambito strutturale. Ma pensavo che dopotutto non si è obbligati a conoscere le cose del passato, e lo strutturale era il passato. In qualche modo credevo che si potesse passare direttamente a guidare un’automobile senza essere prima stati degli esperti cavallerizzi.

Va tutto bene… ma ha molto male!

In seguito all’entusiasmo dei primi tempi vennero ad accumularsi le delusioni, sempre più clamorose: come in un caso di sciatalgia dove avevo trattato tutto, dalla testa ai piedi, lasciando il sacro, l’occipite, tutta la colonna in uno stato meccanico ‘perfetto’ a giudicare dalla qualità e dalla simmetria dei rispettivi ritmi, ma dove il paziente, rimettendosi in piedi scopre di avere lo stesso, se non maggiore, dolore!! Non riuscivo a capire. Andava contro tutti i principi! Un’unica delusione come questa mi fece dimenticare gli altri cento dolori ‘risolti’. Come nel caso di una banale distorsione di caviglia, dove mi ricordo di aver portato allo still point tutto l’arto inferiore, il bacino, la testa, il lettino, il mio studio, il pianeta… e… niente… lo stesso stupido blocco in flessione della caviglia che mi prendeva in giro. Un osteopata strutturale che era presente alla scena, interviene e in un attimo manipola l’astragalo. In qualche secondo il problema era stato risolto, ed io ero rimasto come un c… Quale umiliazione davanti al mio collega che mi aveva visto soltanto in quest’occasione! Non aveva visto tutti i casi che avevo risolto e per i quali non avrebbe probabilmente ottenuto risultati con i suoi ‘crac’!! Avevo rafforzato l’immagine di un funzionale inutile nello strutturale, dunque inefficace. Che grande lezione per me! Smisi di dire che lo strutturale era morto e sepolto! Sapevo che, almeno nel caso di un astragalo in disfunzione, unico osso del corpo a non avere inserzioni muscolari dirette, le tecniche di ascolto sono inutili. Non avendo leve muscolari che potrebbero fargli risistemare le cose e riequilibrarlo da solo, il corpo necessitava di un ‘colpo di mano’ proveniente dall’esterno, ed è questo che l’osteopata gli ha dato.

Morto… in eccellente stato meccanico

All’altro estremo, si accumulavano egualmente i fallimenti della mia miracolosa osteopatia nelle malattie più generiche. Avevo creduto che sarebbe stato possibile persino guarire il cancro. I principi non dicono forse che la ‘regola dell’arteria è suprema’? Una buona vascolarizzazione non avrebbe forse potuto ripulire i tumori? La malattie neurologiche, tipo la SLA, la sclerosi a placche, Parkinson, ecc… furono altri territori di sconfitta. Passavo ore a ristabilire il ritmo craniale, a tentare di manipolare il cervello fino ai nuclei grigi della base. Nessun effetto, a volte persino un peggioramento dopo un iniziale miglioramento. Roba da diventare matti… Perché normalizzare la meccanica del cervello – e dunque la circolazione cerebrale – non ha alcun effetto? Mi si potrebbe dire che non stavo facendo una buona tecnica di ascolto, che non stavo facendo del buon tissulare. Risponderei così: primo, ciò che facevo, quello che era, era molto efficace in tutti i campi di applicazione classici dell’osteopatia, secondo, per quanto ne sappia nessun tecnico dell’osteopatia funzionale può ad oggi affermare di essere efficace in tutte le malattie. Come avrebbe detto R.Becker: tutti i pazienti cancerosi che ho trattato sono morti con successo. Possiamo convenire che esiste una frattura tra i nostri principi e la nostra pratica. L’osteopata strutturale può avere degli eccellenti risultati in certi problemi dell’apparato locomotore, il funzionale può dare una profonda sensazione di benessere al paziente, ma ne’ l’uno ne’ l’altro hanno una risposta per le ‘cose serie’. Una buona mobilizzazione del bacino, uno still point favoloso della ‘scatola cranica’, una liberazione dei legamenti sospensori del colon, non servono a nulla nelle grandi patologie di queste sfere.

Il divario tra i principi e la pratica è sempre lì presente, ci lascia a discorrere nel vuoto sulle meravigliose conseguenze sui tessuti di una buona seduta di osteopatia. Portiamo il massimo del sollievo, più che altro a livello sintomatico, ed accettiamo questo con umiltà.

Dei mezzi D.O.

Questa situazione non è auspicabile per il futuro della nostra professione. Non ha un progetto a lungo termine. Dobbiamo scegliere. Dovremmo sbarazzarci dei nostri principi divenuti inutili, megalomani e insensati per la nostra pratica? Dobbiamo decidere una volta per tutte che l’osteopatia strutturale o funzionale sono due modi di risolvere gli stessi problemi, ma, e dobbiamo ammettere che questo è vero, il secondo metodo sembra meno ‘rischioso’ rispetto al primo e più facile da imparare. Occorrerà anche decidere se si può essere osteopati anche conoscendo molto poco di strutturale, o al contrario  quasi nulla di funzionale. Ricordate che questo accade già da diverso tempo. La maggior parte delle grandi figure dell’osteopatia americana craniale e funzionale non hanno avuto una significativa formazione in ambito strutturale. Durante i loro corsi universitari hanno avuto diritto solamente a qualche ora di insegnamento. Questo è ciò che si faceva e che si fa tutt’ora nei college osteopatici degli USA. L’osteopatia strutturale, in america, termina con Fryette negli anni ’50.

Possiamo allora considerare queste ‘glorie’ come degli osteopati a pieno titolo, dei D.O.? Con tutto il rispetto che è loro dovuto… no! Sono modelli del nostro passato, non del nostro avvenire. Anche loro hanno sperimentato limiti alla loro efficacia, hanno anche sperimentato il divario tra i principi e la pratica. Dobbiamo sapere anche che l’osteopatia funzionale o craniale è stata sviluppata e concepita da degli osteopati che ignoravano lo strutturale o non vi avevano aderito. E questa ignoranza, che non era un difetto, deve essere essere tuttavia sottolineata dato che è al cuore dei limiti della nostra osteopatia attuale, che è diventata o strutturale o funzionale. Dobbiamo notare anche la riuscita di entrambi in aree specializzate, così come il loro fallimento in un ambito generale. Tutti gli osteopati del passato, con una piccola eccezione per Still, Littlejohn e Fryette (5), hanno conosciuto questa frattura tra principi e pratica. Ma poiché non si tratta di lamentarsi del passato o di condannare qualcuno, sopratutto quando riguarda persone dalle quali abbiamo appreso tanto, noi ci porremo la questione in termini di futuro. Quale osteopatia merita di portare a pieno titolo questo nome?

C’è bisogno di un po’ di Storia

Qualche riga di storia ci permetterà di mettere in prospettiva le radici dello strutturale e del funzionale. Provengono da un lontano passato ma noi ci limiteremo al fondatore. Still, dal punto di vista della sua tecnica, risulta difficile da decifrare. Basandosi sulle sue descrizioni non si risce a comprendere bene cosa facesse. Certi elementi della sua biografia sono ancora più sconcertanti. Il solo filmato che esiste lo ritrae mentre manipola o mobilizza una spalla, come farebbe un aggiustaossa. Ed effettivamente, lui stesso si definiva aggiustaossa. Ma le storie che lo riguardano lo descrivono anche come ‘magnetizzatore’ o come ‘guaritore’. Più precisamente dovremmo dire ‘mesmerizzatore’, discepolo di Mesmer, il quale aveva sviluppato la nozione di magnetismo animale. Still mantiene la sua origine mesmerista quando afferma, per esempio, di aver fatto la sua diagnosi ancor prima che il paziente si fosse presentato a lui. Trattava anche le persone a distanza, persino a centinaia di chilometri da dove si trovava. Ecco un terapeuta con delle capacità situate agli antipodi: era capace di guarire una spalla sofferente con il solo pensiero a mille chilometri di distanza, ma anche davanti a lui, in un batter d’occhio. Un paradosso ambulante. Per lui, tuttavia, non c’erano contraddizioni: Un aggiustamento diretto della spalla così come un trattamento a distanza erano degli atti osteopatici legittimi. Come comprendere allora questo paradosso? Semplicemente per il fatto che la sua educazione da bambino, le sue letture, i suoi gusti, le circostanze della sua vita di uomo e professionale, lo avevano costantemente esposto ad una doppia comprensione del mondo. La realtà era entrambe le cose: una meccanica piena di ingranaggi ed un cristallo di spirito. L’aggiustamento meccanico faceva parte della lettura meccanica del corpo, dove semplicemente occorreva sistemare i pezzi, come ci viene mostrato nel filmato dove manipola una spalla. Per contro, ciò che nessun filmato ci può mostrare, è la diagnosi ed il trattamento a distanza, i quali nascono da una natura ‘spirituale’ del reale.

Il grande scisma osteopatico

Still è un caso unico di miscela di ‘magnetismo’ e ‘aggiustaossa’, normalmente due approcci molto distinti, ma che lui ha da subito, prima intuitivamente, in seguito razionalmente, miscelato. Poteva tranquillamente passare da un approccio all’altro. Quando poneva le sue mani, ci metteva anche la sua visione, una visione che andava lontano nel corpo. Era un meccanico del principio vitale, un’impossibilità teorica ma che lui credeva di aver trovato. Il suo tentativo di sintesi aveva portato dei risultati clinici che lui ha ben pensato di riportarci, e che non somigliano per niente ai nostri. Trattava tutto con questo metodo: dall’asma alla tubercolosi, polmonite, malaria, dissenteria e… le lombalgie. Questo è ciò che Still riporta. Possiamo, attribuendo una certa sincerità alle sue parole, che la frattura tra i principi e la pratica era molto meno presente in lui rispetto alla nostra generazione. Non possiamo dire inesistente – dato che anche Still riconosce degli insuccessi – ma certamente molto meno marcati. Still è un’osteopata generalista: vede e tratta tutto.

I suoi allievi hano ricevuto quest’eredità senza mai davvero realizzarne la doppia natura. Ma molto presto si è verificata una scissione. I meccanicisti nel cuore e nello spirito hanno ripreso le loro radici ‘aggiustaossa’, dando loro un pedigree anatomico. Fryette è il più conosciuto. Gli ‘spiritisti’ hanno invece ripreso la radice mesmerista (magnetismo) dandogli allo stesso modo delle referenze anatomiche. Sutherland ed in seguito Becker sono qui illustrati. Questi successori tuttavia continuano a mantenere un collegamento con entrambe le sorgenti. Fryette, per esempio, con lo strutturale prende in carico anche delle malattie generali importanti. Tuttavia la scissione si aggrava rapidamente fino ad arrivare agli attuali osteopati, che spesso hanno solo una piccola formazione nell’altra branca. È abbastanza noto sia negli USA che in Europa, è una scelta che riguarda le scuole e ogni osteopata, che rapidamente abbandona l’una o l’altra branca a seconda dei suoi gusti, delle sue capacità e della sua sensibilità. L’aspetto positivo di tutta questa storia è, ovviamente, il grado di sofisticazione raggiunta da entrambi gli approcci. Il polo degli aggiustaossa, liberatosi quasi del tutto dal magnetismo, ha potuto evolversi in una biomeccanica documentata e rigorosa. Il polo del magnetismo, liberatosi quasi del tutto dagli strutturali, ha potuto anch’esso espandersi nelle sue tecniche dette energetiche o tissulari che noi conosciamo, nelle quali la soggettività ha potuto esprimersi liberamente e, va detto, in una bella maniera. Dico ‘quasi del tutto’ dato che – ricordiamolo – ogni branca ha dovuto mantenere dei riferimenti dell’altra. Gli ‘energetici’ continuano ad avere riferimenti di anatomia, mentre gli aggiustaossa continuano a riferirsi alla globalità, titolo osteopatico comune ai due.

Osteopatia per corrispondenza

Facendo riferimento alla storia, posso dunque dire che il mio percorso di studente e le mie lezioni mi avevano fatto appartenere al clan dei ‘magnetizzatori’. Con forse una piccola differenza: avevo ben studiato lo strutturale e conosciuto degli eccellenti osteopati in questo campo, portando un rispetto che non cesserà mai verso questo approccio.

Riprenderò ora brevemente la mia esperienza circa gli anni che seguirono la mia scoperta delle tecniche dette di ‘ascolto’ dei tessuti. Nel 1984 scoprii, in modo molto casuale, che si potevano sentire a distanza i movimenti lenti che avevo imparato a riconoscere toccando con la mano! Seduto davanti al paziente, con il vuoto tra le mani, potevo sentire i movimenti lenti e asimmetrici dei tessuti, le ossa torcersi dolcemente, i visceri sollevarsi. Come quando toccavo, questi movimenti erano seguiti da un momento di calma, lo still point, poi da uno scioglimento. Questa volta era il ‘campo’ tra le mie mani che mi dava l’impressione di ‘sciogliersi’. Somigliava tanto alla sensazione che si ha quando si tengono due magneti a distanza. Non ci vedevo nulla di immaginario. Io che avevo avuto tanti problemi con l’oggettività dei test palpatori con le mani, eccomi qui a credere di sentire, con evidenza, senza toccare!! Il paziente, nella maggioranza dei casi, sentiva anch’esso con altrettanta evidenza questo ‘scioglimento’, e me lo diceva. A quelo punto – quando appariva lo still point tra le mie mani – potevo persino avvisare il paziente che di lì a poco avrebbe sentito un cambiamento. Questo accadeva praticamente tutte le volte, non avevo mai visto qualcosa di altrettanto riproducibile. Sul piano tecnico mi ritrovavo in una situazione storica complessa. Era chiaramente un tipo di osteopatia ‘ultra-funzionale’, ma avevo la sensazione di praticarla in maniera molto strutturale, dato che più ero preciso nelle mie visualizzazioni anatomiche, meglio funzionava. Questo mi ricorda una frase di Still quando gli si chiedeva la differenza tra ciò che faceva ed il ‘mesmerismo’ (magnetismo). Lui diceva: anatomia e ancora anatomia! Come lui, avevo l’impressione di ‘aggiustare’ il principio vitale.

Giù le mani!

Man mano che procedevo nell’esplorazione di questa tecnica, mi rendevo conto che le mani non giocavano più un ruolo primario. Non è facile spiegarlo: sentivo i movimenti come nel mio sguardo, e per sguardo intendo qualcosa di più degli occhi. Si tratta di una sensazione che ingloba la vista, il toccare, l’interno del corpo. Con il tempo ero arrivato a sentire i lenti movimenti dei tessuti semplicemente nella mia osservazione dello spazio occupato dal paziente, mentre all’inizio pensavo che le mani fossero necessarie. I risultati clinici di quest’approccio furono sia straordinari che deludenti, come nel precedente periodo. Certo, ora potevo fare più cose, come ad esempio trattare dei problemi ormonali o addirittura chirurgici. Ma i grandi fallimenti sono rimasti gli stessi. Nessun effetto nei confronti di malattie gravi. Eppure ci ho provato fino allo stremo delle forze! Dopo dieci anni di pratica di quest’approccio ho sviluppato uno stato di affaticamente serio. Inizialmente era una sensazione di fatica, che con il tempo si è evoluta in uno stato di profondo esaurimento, che si aggravava dopo ogni seduta di osteopatia che praticavo. Feci così degli esami che mostrarono un’importante osteoporosi legata ad iperparatiroidismo. Ero diventato un osteopata nel senso proprio del termine: malato nelle ossa.

Questo dossier, e mi sono espresso in merito a diverse riprese, deve essere considerato nella sua interezza quando si parla di osteopatia strutturale e funzionale. Quale dei due approcci è il più sano, meno pericoloso o tossico nei confronti dell’osteopata? Credo che la risposta sia assai evidente. Lo strutturale, che si esegue quasi totalmente attraverso l’uso delle mani, comporta un’attività fisica dell’osteopata, e sembra poco ‘pericoloso’ da praticare. Il funzionale, e nel mio caso specifico si trattava di un ‘ultra-funzionale’ senza l’utilizzo delle mani, quindi senza attività fisica, può essere ‘pericoloso’ per l’osteopata, dando l’impressione che si svuoti della sua energia.

L’auto-osteopatia

Questo percorso, di uno studente di osteopatia che non ha mai perso la passione, termina dunque in malo modo circa nel 2000, quando devo rinunciare completamente alla pratica dell’osteopatia, mio amore di gioventù, ed anche all’insegnamento, che adoravo altrettanto. Come insegnare agli altri ciò che ti ha quasi ucciso? Seguirono due o tre anni di estrema confusione. Inizia poi un periodo nel quale scopro, per necessità di sopravvivenza, un nuovo aspetto della tecnica osteopatica. Di fronte all’assenza di trattamenti osteopatici o medici per la mia condizione, è stato necessario che prendessi un appuntamento con me stesso per trattarmi. Questa fu la scoperta dell’auto-osteopatia, termine forse un po’ stupido, ma che sul piano tecnico significa che ho dovuto imparare a fare su me stesso ciò che avevo appreso a fare sugli altri. Come si tratta se’ stessi? In strutturale? Molto limitato… In funzionale? Tecnicamente possibile. Durante il periodo che precedette la mia scoperta sul trattamento a distanza, avevo già fatto delle scoperte. Ponevo le mani su me stesso, attendevo i movimento asimmetrici, poi lo still point. Risultati: mediocri e passeggeri, e dunque rapidamente noiosi da fare.

Vorrei ricordare alcune delle conseguenze tecniche di questo lavoro che dura ormai da oltre 10 anni. All’inizio è stato impossibile trattarmi… a distanza! Come guardare a me stesso da fuori? Ho provato lo specchio e un sacco di altre esperienze interessanti, che si rivelarono tutte accessorie, ma dovevo andare all’essenziale. Tutto è possibile: si può curare se’ stessi immergendo lo sguardo interiore nella propria anatomia, fisiologia e patologia. Si possono comunque usare le mani oppure lavorare senza di esse. Ma ciò che conta è che lavorando su se’ stessi, si sperimenta direttamente la distinzione tra strutturale e funzionale. Si impone come una necessità.

Raccontare quest’esperienza nel dettaglio andrebbe oltre il proposito di questa discussione sull’apparente dualità strutturale/funzionale. Propongo ora, per riassumere ciò che è in gioco, un esercizio di palpazione su se’ stessi, che permetterà di aprire il dibattito, anche nella teoria, permettendoci di fare le giuste domande.

Un piccolo esercizio per differenziare il tocco dallo sguardo

Prendiamo la situazione classica. Il paziente è disteso supino, davanti a lui ci sono io, un operatore esterno. Metto le mani ai lati del suo cranio. Dato che penso di ‘manipolare’, vado a sentire cosa accade tra le mani e parlo dunque di tensioni nelle meningi, di ossa, ecc… Posso anche, come fanno spesso gli osteopati, dire che scendo più in basso per sentire il diaframma toracico, il bacino, che ha più tensione a destra, è più alto a sinistra, ecc… Per quanto la prima affermazione che concerne ciò che sento tra le mani può essere veritiera, per quanto riguarda la seconda, ciò che sento più lontano o più in basso risulta un po’ difficile da ammettere. Con quali mezzi partendo dalla testa riesco ad arrivare a sentire il bacino? Attraverso le tensioni della rete connettiva che unisce tutte le parti del corpo? Attraverso i fluidi o i nervi? Attraverso l’energia, il ‘Chi’ o altri nomi che possono designare la forza vitale? Può essere tutto vero, ma per il momento non è dimostrabile. Il paziente, di solito, non può confermare ciò che l’operatore sente. Abbiamo due sistemi in contatto: l’operatore con il suo vissuto e il paziente con il proprio, e non coincidono.

Riprendiamo il punto di vista dell’operatore. Egli pretende di sentire delle tensioni tra le sue mani, e delle tensioni al di fuori dello spazio tra le sue mani. Così facendo mescola due cose: il tocco e lo sguardo. È sopratutto attraverso il tocco che io sento attraverso le mie mani, e con lo sguardo – quello che chiamiamo la visualizzazione – ciò che sento lontano dalle mie mani. Queste distinzioni sono un po’ artificiose dato che il nostro sguardo partecipa al tatto e il nostro tatto partecipa allo sguardo come si potrebbe facilmente dimostrare. Ma è importante distinguere queste due percezioni nella situazione in cui c’è un operatore esterno al paziente. È anche il minimo della correttezza scientifica ammettere che ciò che si sente tra le mani deve essere differente da ciò che si sente fuori dalle mani.

Facciamo un altro collegamento sperimentale. È sufficiente chiedere, preferibilmente ad un osteopata, di essere il suo stesso paziente ed operatore. Le capacità quasi miracolose dell’osteopata che sente le cose lontano dalle sue mani trovano allora una soluzione molto semplice, dato che è fondata sull’esperienza diretta del proprio corpo. Come contestargli il fatto che può sentire ‘qualche cosa’ tra il cranio e il bacino, se questo avviene su se’ stesso? Ciò che sembra impossibile ed irrazionale per l’osteopata, diventa di fatto accettabile e razionale per il soggetto che percepisce se’ stesso.

L’osteopaziente

Riprendiamo dunque la tecnica di cui sopra. Distesi supini, mettiamo le mani ai lati del nostro stesso cranio. A partire da ora, si aprono due percorsi. Il primo, sentire le tensione tra le mani, fare del craniale su se’ stessi come lo faremmo su un paziente. È un’esperienza interessante, non tanto sul piano clinico – dato che penso che si cadrebbe negli stessi limiti di un’osteopatia incompleta – ma sul piano dell’esperienza dell’anatomia. Riprodurre il sapere anatomico appreso nei libri o sui pazienti o in una dissezione anatomica su di se’ è un’esperienza interessante, un esercizio di visualizzazione differente da quello vissuto se trattassimo un altro. Esiste un secondo percorso. Poniamo le mani sempre ai lati del cranio, ma questa volta non dobbiamo muoverle per seguire un qualunque movimento. Le mani devono diventare unicamente delle barriere, dei limiti del campo percettivo. In seguito, facciamo intervenire il nostro sguardo interiore che andrà ad esplorare lo spazio tra le mani, per sentire eventuali movimenti lenti ma sopratutto, percepire cosa succede ‘altrove’ nel corpo. Per esempio nel bacino o nei visceri. È questo ‘altrove’ ad entrare in gioco e a muoversi in correlazione agli eventuali movimenti nel cranio. Ricordiamo che in questa tecnica le mani servono sopratutto ad ‘inquadrare’ uno spazio del corpo, qui il cranio, e lasciare che esprima tutte le tensioni interne in rapporto a questo spazio. Seguendo i nostri maestri americani, chiameremo questo tipo di percezione: l’osteopata interiore. Non c’è limite alla complessità degli schemi che in tal modo si possono costruire. Potremmo, seduti su una sedia, mettere le mani sulle ali iliache e sentire i movimenti dei due emitoraci in rapporto al bacino, dei due emicrani in correlazione con il torace, percependo in risposta la rotazione dei due femori, dell’atlanto-odontoidea rispetto alla cervico-dorsale. Una passeggiata multidimensionale dentro di se’.

Sento dunque sono

Compariamo ora l’azione dell’osteopata esteriore a quella dell’osteopata interiore. Da un lato, il primo percepisce tra le proprie mani – ciò che è possibile – e lontano dalle sue mani, ciò che è non verificabile e, ad ogni modo, limitato. Dall’altro lato, l’osteopata interiore può sentire tra le sue mani e al di la’ di esse, ma questa volta in maniera verificabile dato che è l’operatore-paziente a sentire e non uno che ‘dice’ all’altro ciò che sente. Una volta che questa finestra è stata aperta, la tecnica va molto più lontano: si può imparare a sentire delle correlazioni meccaniche molto complesse: nelle gambe, nella posizione dei temporali, le tensioni della pleura in rapporto all’atlante, del pericardio rispetto alla giunzione cervico-dorsale o allo ioide, la mandibola e le lamine orbitali dei frontali. Questo discorso sulle catene lesionali è stato tenuto per molto tempo dagli osteopati esteriori. Ma non si è mai verificato fino in fondo tranne che con l’osteopata interiore. Dobbiamo convenirne: nessun osteopata può sentire al posto del suo paziente, nessuno può percepire cosa accade in un dato momento in un’altra persona. Chi può percepire, in un’altro, allo stesso tempo, la pesantezza al polpaccio sinistro, il punto di ansia nel torace, la sensazione di bracciale stretto al polso destro, il dolore alla radice di un dente, ecc…? Qualunque sia il proprio eventuale dono di chiaroveggenza, un operatore non può che pretendere di sentire solo una piccolissima parte di ciò che realmente accade al di fuori di lui.

Sentire le mie funzioni

L’illustrazione di questa tecnica mi permette di dare una definizione più precisa di ciò che dovrebbe essere l’essenza dell’osteopatia funzionale. La tradizione ci dice che al contrario dello strutturale, ha per vocazione l’”ascolto” dei tessuti, lasciandoli esprimere senza influenzarli nel cammino verso la loro guarigione. Ora, questa situazione non si produce realmente e completamente se non quando l’operatore è il suo stesso paziente. Le mani cessano allora di giocare un ruolo preponderante, diventano accessorie, non fanno altro che ‘delimitare’ delle zone di osservazione, dei punti di vista su di se’. Lo sguardo interiore sarà in grado di interpretare in un linguaggio anatomico – la struttura – delle modificazioni fisiologiche – la funzione. È osservando noi stessi, imparando a conoscere la nostra anatomia vivente, a vivere i propri movimenti, le proprie torsioni, che noi raggiungeremo un livello di vero ascolto e rispetto dei tessuti. Quello che può percepire qualcun’altro al posto nostro, per quanto esperto sia, non può essere che minuscolo rispetto a ciò che noi possiamo conoscere di noi stessi. La vocazione futura dell’osteopata funzionale è dunque, mi sembra, la pedagogia dell’osteopatia interiore. Dobbiamo imparare a praticarla su noi stessi e condividere questa informazione con gli altri, con i nostri pazienti. È in ogni caso il cammino terapeutico che ho intrapreso da quando ho dovuto abbandonare, forzatamente, la posizione di osteopata ‘esteriore’ esclusivo.

Ho tentato qui di definire in linea di massima quello che dovrebbe essere l’osteopatia funzionale. Ciò che è attualmente, nella pratica e nell’insegnamento, è necessariamente un compromesso individuale o collettivo. E più saremo precisi nella nostra definizione di funzionale, più saremo in grado di identificare, per esclusione, una migliore definizione di osteopatia strutturale.

Palpare i propri bruciori di stomaco

Nella sua essenza, l’osteopatia funzionale non è manipolativa nel senso proprio del termine, nel senso che non è dipendente dall’azione delle mani. È funzionale, e lo sguardo interiore è in presa diretta con la funzione tissulare. È la visione diretta della funzione, senza intermediari. Sento i bruciori della mia acidità gastrica, sento anche la pesantezza del mio stomaco, e solamente io posso sentire queste cose e integrarle in uno schema di aggiustamento meccanico. Le mani hanno poco a che vedere con questo. Affermare che possiamo palpare lo stomaco è già molto dubbioso, figuriamoci palpare dei bruciori di stomaco… Le mani possono aiutare ad identificare il diaframma, ad esempio, aiutando lo sguardo interiore a creare lo spazio nel quale il Movimento Autonomo dei tessuti va a rimettere le cose a posto, permettendo di andare verso un cammino di guarigione. Capiamoci bene, la guarigione è cosa più complessa. Raggiungere l’essenza del funzionale, la percezione diretta delle proprie funzioni, non deve essere sbandierato come la soluzione definitiva, almeno per ora. Chi soffre di bruciori di stomaco non ha uno stomaco malposizionato, o delle ossa che premono sul nervo Vago, spiegando i sintomi, ma è anche un essere roso da rimorsi. Ne’ i bruciori ne’ i rimorsi possono essere ‘palpati’ da qualcosa di esterno. La vera intimità è percepibile da se’ stessi ed impalpabile all’altro. Ci sono poi livelli di funzione più complessi che intervengono: neurologici, affettivi, sociali, ecc… È in questi casi che possiamo lasciare il cammino del funzionale esprimersi pienamente. Le funzioni si intrecciano naturalmente: mentre sentiamo i nostri stessi bruciori, percepiamo probabilmente ciò che ci sta ‘ulcerando’, e i punti di vista sulla nostra meccanica accompagnano i punti di vista sul nostro spirito.

Uomo avvisato mezzo salvato. Sappiamo in anticipo che la migliore tecnica funzionale, la stessa che noi proponiamo, non darà risposte a tutto. Ad oggi ho una significativa esperienza, essenzialmente su di me, che forzatamente sono diventato operatore-paziente, con dei vissuti molto interessanti, di successi come di fallimenti, ma di successi in ambiti dove i trattamenti di osteopatia esterna non avrebbero potuto aiutarmi. Ciò che possiamo dire è che, nel caso di malattie gravi, un osteopata funzionale di questo tipo potrebbe far progredire di molto le cose. Consentirebbe al paziente di dare importanza e trasformare in altrettanti medicamenti funzionali delle sensazioni come nausea, pesantezze, tensioni, tremori, un nodo in gola o altre ‘piccole’ cose che non interessano mai a nessuno o che al massimo ptorebbero interessare un omeopata o uno psicologo.

Un colpo di mano

Credo – sempre secondo la mia esperienza – che questa osteopatia interiore, andando più lontano da quanto si ottiene oggi, avrà anche dei limiti dato che dimentica l’altro polo dell’osteopatia, lo strutturale. Certo, questa antica tradizione delle manipolazioni, malgrado l’apparente violenza fatta al corpo, ha ancora un bell’avvenire davanti a se’. Avendo compreso l’essenza del funzionale, credo che potremmo meglio comprendere, se non altro per esclusione, qual’è la vocazione dello strutturale. Non potendolo fare nel dettaglio come per il funzionale, sia per mancanza di spazio che di competenza, credo di poter affermare che quest’essenza è la manipolazione, l’intervento di forze esterne, la necessità di un ‘colpo di mano’ in senso proprio e figurato. Non parlo necessariamente di ‘thrust’ ma di un’imposizione di forze esterne, dato che siamo condizionati da forze interne tanto quanto esterne. Per ognuno di noi, con le sue proprie circostanze patogene, occorrerà imparare a determinare il giusto equilibrio tra la necessità di ricorrere all’osteopatia interna – che, in ultima analisi, è destinata ad essere ‘fagocitata’ dal mondo dei pazienti – e l’osteopatia esterna, che ha ancora un futuro brillante come appannaggio di ‘praticanti’ formati. Lo strutturale, qui definito in maniera molto generica, non sarà più unicamente il ‘crack’. Includerà tutte le situazioni nelle quali l’applicazione di forze esterne è necessaria e può assumere numerose forme: ginnastica, danza e persino boxe. In ogni caso, l’applicazione delle forze dovrà essere coerente con lo stato e la biomeccanica del paziente.

Conosciamo già numerosi casi dove una tale forza esterna è ancora utile, se non l’unica possibilità, dato che l’osteopata interno non può essere che richiesto: bambini, anziani, handicappati. In questi casi, l’osteopata esteriore si prende cura delle cose con eccellenti risultati. Tuttavia, nella quotidianità, dove si trattano persone che hanno raggiunto l’età della facoltà di coscienza di se’, l’osteopata interiore diventerà una referenza, e l’esteriore un aiuto. Nonostante questo tutti i miscugli sono possibili: si può fare dello strutturale su di se’ e sugli altri, come del funzionale su di se’ o sugli altri. Non ci deve essere nessun dogma, c’è sempre posto per un po’ di eclettismo in ogni situazione. È un cammino questo ispirato da principi forti e da pragmatismo, che ridurrà – senza abolirla – la frattura tra i principi e la pratica, cosa che noi attualmente viviamo sin dai tempi successivi a Still.

Still point più pompage

Nel nostro passato, come abbiamo già appreso sebbene fosse molto vago, si faceva di tutto per aiutare a recuperare la salute, del funzionale e dello strutturale a seconda del caso e della richiesta. Questi trattamenti ibridi scompaiono, credo, e questo è auspicabile, perché come si suol dire, diventiamo dilettanti in tutto e professionisti in niente. Ma possiamo ricordare certi miscugli interessanti. Una seduta dove il paziente-operatore, con l’aiuto pedagogico di un osteopata esterno, ‘lavorerà’ sul suo proprio fegato, sulla sua funzione, alla ricerca di un buon still point. Una volta ottenuto questo, si potrà procedere con un intelligente pompage del fegato eseguito dall’osteopata esterno. Si possono ipotizzare molti di questi ‘mix’, potrebbero far rivivere pressoché tutto l’armamentario osteopatico strutturale che sembrerebbe altrimenti destinato ad un museo.

Lo strutturale può essere dunque d’aiuto al corpo per realizzare ciò che fatica, o non è più in grado di fare dal solo. Questo implica la coscienza dell’altro. Il funzionale è invece incoraggiare il corpo a fare da se’, ciò che meglio riesce a fare, e questo implica la coscienza di se’. La funzione, sono io. Mentre la struttura ‘è l’altro’, anche quando metto le mani sulla mia pelle, perché questa pelle è trattata come un oggetto dalla mia mano che sente. Tra queste due coscienze sono concepibili tutti i gradi di mescolamento, una volta che le cose sono ben definite. Quando delle forze esterne intervengono a spostare e disordinare le cose – come in un parto, come nell’anziano sopraffatto dalla forza di gravità, come nello sportivo traumatizzato da un colpo – occorre probabilmente che intervenga qualcuno dall’esterno, per rimettere a posto e riordinare le cose. Mentre quando sono delle forze interne la causa di un disordine, lasciamo che siano queste stesse forze a rimettere ordine. Loro conoscono meglio di chiunque il giusto posto e l’ordine delle cose. E se è vero che non si può pensare di picchiare la testa contro il muro o impiccarsi per trattarsi una compresisone del cranio o una lesione atlanto-odontoidea, l’intervento dell’altro in questi casi sarà sempre più preciso ed efficace di quanto non potremmo fare da soli. La combinazione tra strutturale e funzionale che auspico, consiste nell’incoraggiare il ‘paziente’ a prendere contatto con il suo osteopata interiore, ed io, posso fornire delle piccole ‘spinte’ per rinforzare le sensazioni grazie alla mia conoscenza dell’anatomia. Questo sembrerebbe funzionale, ma è anche strutturale! Tutto è possibile…

Sarebbe insensato pensare che l’uno o l’altro approccio, funzionale o strutturale, sia sorpassato, grezzo o una farsa. Mai, in maniera assoluta, la coscienza o conoscenza di se’ – che rappresenta il funzionale nella sua essenza – potrà essere sorpassato dalla conoscenza (o coscienza) dell’altro, appannaggio dello strutturale. Reciprocamente. Ciascuno ha i suoi propri ambiti di intervento e competenze. Ciascun approccio implica un altro modo di apprendere l’anatomia e la fisiologia. Il D.O. del futuro porterà pienamente il suo titolo quando sarà un eccellente pedagogo della propria coscienza e attore della coscienza dell’altro. Un osteopata ben formato sin dalle sue radici potrà naturalmente aprirsi agli altri aspetti concernenti la salute e la malattia. La coscienza di se’ non è che la percezione della mia meccanica, ma anche l’effetto, per esempio, di ciò che mangio sul mio corpo e sul mio spirito. La coscienza dell’altro, non è che la storia dell’intervento manuale osteopatico ma anche di tutti gli altri interventi manuali.

Il funzionale e lo strutturale sono delle porte molto generali del Vivente. Lo dico a titolo personale dato che posso solo parlare di come personalmente comprendo le cose, e dato che ho il piacere di esplorare il funzionale da solo su me stesso e lo strutturale sull’altro. Ma infine, tutte queste distinzioni scompaiono e rimane semplicemente il piacere di trattare se’ stessi e di aiutare gli altri.

Ringraziamenti 

Ringrazio Mr Jean Louis Boutin D.O., per la sua rilettura del testo,  Mr Frédéric Zenouda DO, redattore e direttore della rivista Le Monde de l’Ostéopathie, che mi ha permesso di riprodurre questo articolo pubblicato nel numero 8 della rivista (Oct/Nov/Décembre 2013, questa versione è stata rivista rispetto all’articolo originale).

Note

1. Si tratta, in realtà, delle leggi proposte dal chirurgo Robert W. Lovett (1859-1924), co-autore con E. Bradford del ‘Trattato di chirurgia Ortopedica’ (Treatise on Orthopaedic Surgery), considerato il testo di riferimento per la chirurgia ortopedica dei tempi, leggi poi riprese ed ‘osteopatizzate’ da Fryette. Vedi anche:  Robert W. Lovette, M.D., di Boston. Dal Laboratorio di Anatomia, Harvard Medical School – ‘A Contribution to The Study of the Mechanics of the Spine’ – Ristampato da The American Journal of Anatomy, Vol. II, No 4, pagine 457-469, 1 Ottobre 1903 dove vengono descritti per la prima volta quelle che gli osteopati chiameranno Le Leggi di Fryette.

 2. A parte la concorrenza esasperante esercitata dai chiropratici dai quali cerchiamo disperatamente di distinguerci, ma a volte senza essere in grado di spiegarlo.

3. F. Mitchell senior, allievo di Fryette, ha inventato un metodo destinato a facilitare le difficoltà palpatorie legate allo strutturale. L.H. Jones, allievo di Hoover, ha trovato un sistema che facilita enormemente la palpazione definita da Hoover con la sua tecnica funzionale. Io ho avuto l’onore di incontrare degli allievi ‘ortodossi’ di Fryette e di Hoover, così come di Mitchell Jr. e L.H. Jones, cosa che mi ha permesso di comprendere appieno differenze e similitudini.

4. Ad eccezione, lo ripeto, della sfera pediatrica, e sarebbe interessante comprenderne il motivo.

5. Questi tre autori hanno scritto e praticato un’osteopatia-medicina generale. Saremmo tentati di includere W.G. Sutherland, ma quest’autore non ha lasciato delle discussioni di tipo clinico sugli ambiti di applicazione del craniale.