Articolo pubblicato su www.osteopathie-france.net©: Alain Abehsera – Étude sur les Principes de l’Ostéopathie : encourager l’art de la réciproque

Autore: Alain Abehsera DO, MD

Traduzione a cura di Andrea Gasperoni Ferri, Osteopata DO

Possiamo essere felici del fatto che il nostro percorso di formazione osteopatica includa dei corsi sui principi e la storia dell’osteopatia. L’insegnamento della medicina nelle facoltà ha già da tempo abbandonato certi temi per passare subito al vivo della questione: materie fondamentali e clinica. Gli studenti in osteopatia hanno invece diritto a qualche ora per comprendere quali erano i principi che hanno portato il Dott. Still a “concepire” l’osteopatia. In generale in queste ore viene dedicato un po’ di tempo per una breve biografia di Still, eventualmente di Sutherland, ad enunciare alcune delle frasi chiave, le loro intuizioni più geniali, quelle che più li contraddistinguono da altri terapeuti.

I tre principi sono quattro

Il primo principio è quello della capacità di autoguarigione del corpo. Il secondo (oppure potrebbe essere il primo?) afferma la globalità della nostra fisiologia, anatomia e patologia. Il terzo enuncia che “la struttura governa la funzione”, quello che, in termini più comuni, significa che dei problemi della meccanica del corpo possono generare dei problemi nella funzione. Un ultimo principio afferma che la “regola dell’arteria è suprema”, avendo come variante anche quella del nervo. Ed ecco in poche parole l’insieme dei principi osteopatici.

Sono principi buoni e giusti, ma non ci portano molto lontano, dato che una volta che li enunciamo, non segue nulla. Immaginiamo un giovane osteopata che si confronta con un paziente il quale chiede di comprendere i principi secondo i quali la sua schiena ha trovato un così grande sollievo. L’osteopata enuncierà allora i principi uno dopo l’altro, principi che molto probabilmente saranno elencati anche sul suo sito internet e sulla sua brochure. Ma poi al paziente viene la malaugurata idea di chiedere all’osteopata se può fare qualcosa anche per il suo suocero che soffre d’ipertensione arteriosa, la più diffusa patologia in Francia. Non è forse questa un’occasione per verificare la “supremazia dell’arteria”, o del nervo? La confusione sarà allora grande, dato che bisognerà ammettere che in questa patologia i principi in questione non si applicano veramente, o meglio, non si sa bene come applicarli in pratica. Ed è lo stesso per la maggior parte delle patologie più “serie”, nelle quali l’osteopatia gioca un ruolo di sostegno, analgesico, supplementare.

Ora, un principio deve essere un principio, o si applica dappertutto o da nessuna parte. È dunque questa la riflessione che vi invito a fare: i nostri principi sono veramente dei principi o sono solo una fantasia?

Preciso subito che la vedo dura su come fare con questi principi. Ma non può essere che necessitino di una formulazione più completa, equilibrata, più… giusta?

Struttura/funzione: 1 a 0 !

Cominciamo dal terzo principio, che è il più veloce da “equilibrare” nella sua espressione. Still non diceva: “la struttura governa la funzione”. La sua espressione esatta della questione era che “delle anomalie anatomiche sono suscettibili di generare una disordine di ordine fisiologico”. In questi termini, sono le regole dell’incontro tra l’anatomia e la fisiologia ad essere discussi. Nelle nostre scuole di osteopatia abbiamo appreso, attraverso numerosi esempi, che la struttura governa la funzione, che una “lesione meccanica” può generare una disfunzione. Ne parliamo molto tra di noi ma siamo in grado di dare un esempio chiaro e certo di questo meccanismo? Da parte mia, mi sono sempre sentito incapace di fornire un tale esempio su cosa si auna lesione osteopatica. Tant’è vero che subito dopo Still, c’è un uomo che dice l’esatto opposto del Maestro: “la funzione governa la struttura” (ma non in questi esatti termini sia ben chiaro). Si tratta di John Martin Littlejohn, il fondatore dell’osteopatia europea. Nello scontro tra anatomia/fisiologia, il nostro maestro scozzese (Littlejohn) aveva puntato sull’altra squadra. E ricordiamo che i nostri due ‘Anziani’ si sono seriamente battuti a questo proposito.

Funzione/struttura: 1 a 0 !

Il tempo è passato e noi non ci identifichiamo più in questa battaglia. È chiaro che le due versioni sono corrette e, quando enunciate assieme, riflettono la realtà del corpo. Dire, per esempio, che la funzione respiratoria è condizionata dalla forma del torace, è valido solo se si afferma anche che il modo di respirare condiziona la forma del torace. Quando comprendiamo la reciprocità di questa relazione struttura/funzione, non abbiamo più bisogno di cercare un “esempio clinico” particolare, dato che l’evidenza è lapalissiana. L’arte del clinico è di destreggiarsi tra le due, influenzando la forma direttamente con le sue mani, giocando persino con la funzione, chiedendo al paziente di intervenire con la sua respirazione, ecc…

Dal punto di vista dei principi, Still e Littlejohn hanno entrambi ragione: è un 50/50. Ma Littlejohn poteva forse avere una piccolissima parte di ragione in più rispetto a Still: la relazione “funzione governa struttura” si stabilisce su un 51/49… Perché? La versione dello scozzese lascia spazio a un maggiore ottimismo rispetto all’antica versione stilliana. Davanti alle deformazioni strutturali importanti che a volte vediamo, ricordarsi di Littlejohn significa dare coraggio, perché dietro ad un’asimmetria delle strutture, resta sempre un pezzetto di funzione “normale”. In una scoliosi di fronte alla quale ci si chiede come possa “tenere”, o in una reazione infiammatoria acuta, Littlejohn ci incoraggia a “cercare ciò che ancora funziona”. Un po’ di “funzione normale” può cambiare di molto una “struttura anormale”.

Dovremmo quindi cambiare il nostro abituale “struttura governa funzione” con una relazione reciproca tra struttura e funzione, che diviene allora un Principio, e in quanto tale non avremmo bisogno di alcun esempio particolare, dato che tutti i libri di anatomia e fisiologia diverranno degli esempi.

Andrew Taylor… Ippocrate

Veniamo ora ai primi due principi. Come li conosciamo non è in realtà come sono stati formulati da Still. Riguardo l’autoguarigione, per esempio, ci si riferisce al Vecchio Dottore che parla della farmacia fornita da Dio ai nostri tessuti per guarire tutte le malattie possibili ed immaginabili. In altri termini, possediamo tutto ciò che serve per guarire da soli.

Bisogna fare attenzione a non considerare questa idea come particolare di Still, come un suo tratto originale nella storia dell’umanità. Questa “capacità di qutoguarigione” del corpo è uno degli assiomi fondanti di tutta la medicina, ed è documentato per la prima volta negli scritti di Ippocrate in questa forma (latina): vis medicatrix naturae. La forza di guarigione della natura. È un’osservazione semplice, fondamentale, che deve risalire alla preistoria dove si osserva che i malati tendono all’autoguarigione, le cicatrici si richiudono, i sanguinamenti si arrestano, la febbre scende, ecc…

Appropiarsi di tutto questo e renderlo tipico dell’osteopatia è una sorta di insulto verso gli Antichi. La medicina, anche la più convenzionale, continua a crederci, tanto quanto noi. Calibra anche tutti i suoi medicamenti attraverso l’effetto placebo, che è una maniera di suscitare la capacità di autoguarigione.

Quanto alla globalità, si potrebbe un poco accusare la medicina di non curarsene con tutte le sue specializzazioni e sotto-specializzazioni, i farmaci con i loro effetti secondari a volte temibili. Eppure, la medicina guarda ancora alla nozione di omeostasi, che sta a mezza via tra l’autoguarigione e la globalità.

La nostra colpa è più grave agli occhi dei confratelli delle altre medicine complementari. La “globalità” e l’”autoguarigione” sono dei “principi” che condividiamo con l’insieme delle medicine dette “alternative” o “complementari”. “Autoguarigione” e “globalità” sono, in realtà, raggruppati sotto un cappello comune, quello di un Principio Vitale, che apporta la guarigione e la coordina in tutto il corpo. La naturopatia, la fitoterapia, la chiropratica, l’omeopatia condividono con noi, in una maniera o nell’altra, queste credenze. Still lo sapeva molto bene e non pretendeva assolutamente nulla in questo senso. Still conosceva bene tutte le forme di medicina naturale del suo tempo e prima del suo tempo, sarebbe offensivo nei suoi confronti credere che abbia inventato lui questi principi.

I cinque comandanti supremi del corpo

Veniamo dunque a uno dei nostri assiomi favoriti: la regola dell’arteria è suprema. Anche qui occorre fare attenzione a non urtare il buon senso. Nessuno avrebbe dunque notato prima di Still che una buona vascolarizzazione è la chiave della salute? È evidentemente lapalissiano. Tutta una scuola di medicina, detta iatromeccanicista, che si propaga in Europa tra il XVII e il XVIII secolo, enuncia questo principio e lo erige a dottrina. Duecento anni prima di Still, tutti “sapevano” che una buona vascolarizzazione è auspicabile. Non c’è bisogno di aggiungere il termine “suprema”, che non aggiunge nulla, sopratutto quando si va a leggere un po’ più luntano negli scritti del maestro, che è il nervo ad essere al comando. Tra il comando e la supremazia, siamo nel regno dei superlativi. Era la maniera di esprimersi di Still, ma non deve essere rappresentata tale e quale ai giorni nostri. Alla sua maniera, un po’ marsigliese, Still ha descritto la supremazia di tutti i tessuti, uno dopo l’altro: liquido cefalorachidiano, sangue, linfa, fascia, ecc… Troppa supremazia uccide la supremazia. Io amo il suo stile di scrittura – quante volte ho riso leggendolo, quante volte sono stato toccato dall’intelligenza dei discorsi – ma facciamogli un favore: non riproduciamolo letteralmente centocinquant’anni più tardi!

La medicina moderna, attenta alla precisione del vocabolario, potrebbe avere qualcosa da dire contro un’appropriazione da parte dell’osteopatia di cose che riguardano il buon senso ed appartengono a tutti. Immaginate se volessimo rivendicare l’idea – come si può vedere scritto a proposito di una pseudo-invenzione del concetto di immunità da Still – di essere stati noi ad aver compreso per primi l’importanza dell’omeostasi, della vascolarizzazione, dell’innervazione, dell’LCR, del tessuto connettivo, del drenaggio linfatico, ecc…  Attenti alle urla!

Sig. de La Palice, DO

Arriviamo dunque alla conclusione iniziale che i principi attuali dell’osteopatia dovrebbero essere rivisti nella loro formulazione. Potremmo riassumerli così: quattro concetti presi in prestito dalla medicina da Ippocrate, ma anche, data la loro logica e la loro vecchiaia, quattro concetti lapalissiani.

Avere come fondamento delle banalità non è necessariamente un difetto. Quanto più è vero, tanto più deve essere basato sul buon senso. Si può anche essere fieri del fatto che la nostra osteopatia sia stata fondata, quasi esclusivamente, su concetti che mettono d’accordo tutti. L’osteopatia è la genialità del buon senso. Non dobbiamo appropiarcene come se fossero intuizioni originali e geniali, dato che un tale errore di “forma” potrebbe far dimenticare il contenuto così prezioso dei nostri principi, la loro vera originalità tra quelli che dicono la stessa cosa.

Riformulare i nostri principi restando fedeli allo spirito dei nostri fondatori, fedeli allo spirito della nostra generazione, è possibile. Occorre trovare l’equilibrio delle cose. L’abbiamo visto, brevemente, nella relazione struttura/funzione. Ricordandone qui la reciprocità, non vedo in nome di cosa i potrebbe criticarne la validità. Separarle porrebbe immediatamente un problema. Come spiegare, ad esempio, la lesione osteopatica vertebrale partendo da “la struttura governa la funzione”? Dicendo che tutto, inevitabilmente, inizia con un “problema di struttura” che va a creare problemi funzionali? Ma cos’è un problema di struttura? Un traumatismo? Quindi avremmo tutti ricevuto delle percosse? Il thrust, la manipolazione principe dell’osteopatia, sarebbe un contraccolpo per riparare i colpi ricevuti durante la nostra esistenza? È ovvio che una tale spiegazione – che resta valida quando veramente si riceve un colpo! – non regge. Quindi noi non saremmo altro che traumatologi?! Incorporare dall’inizio il concetto “funzione governa struttura” permette invece di parlare di una dinamica che porta a delle vertebre in estensione, rotazione, flessione laterale, con o senza colpi….  Funzionando in estensione, la colonna assume una posizione in estensione. Questo ci obbliga allora a cercare in altre direzioni diverse dal traumatismo.

I vitalisti: medici abbattuti

Una delle principali cause della sparizione della credenza in un “Principio Vitale” in medicina è l’osservazione che credere in un tale principio significa tagliarsi via del tutto un’azione terapeutica possibile nei confronti del malato. In effetti, se tutti i sintomi, tutte le malattie, sono il riflesso degli sforzi del Principio Vitale, la manifestazione della “vis medicatrix naturae”, allora perché curare? Perché tentare di alleviare il dolore, abbassare la febbre, ridurre l’infiammazione? Queste sarebbero quindi ostacoli all’azione del Principio Vitale e delle sue capacità di autoguarigione. Un boscaiolo lombalgico si presenta a noi: perché sopprimere il dolore per fare sì che torni presto al lavoro, dato che il suo corpo sta solo chiedendo un po’ di riposo? È ciò che si dovrebbe fare davanti a una febbre: lasciarle fare il suo corso piuttosto che sopprimerla a suon di antipiretici. E cosa dovremmo fare davanti a un’eruzione cutanea? Si tratta sicuramente di un’”eliminazione” attraverso la superficie di cose che il corpo rigetta, ecc… Il vitalismo, che vede la malattia come l’espressione delle forze di autoguarigione, giunge alla passività di fronte alla malattia. Ecco le beffe rivolte ai medici vitalisti del XIX secolo, ai tempi gloriosi di questa scuola, condannati a constatare, dinanzi a tutte le malattie, gli sforzi del Principio Vitale per guarire. Il colera, con la sua spettacolare diarrea, era considerato come uno sforzo del Principio Vitale di sbarazzarsi delle tossine. Ma quando il malato muore, disidratato, alla fine di questo sforzo di “pulizia”, ci si doveva ben porre la questione dell’efficacia del Principio Vitale, della sua capacità di autoguarigione. Tutti i pazienti che muoiono nel corso di una malattia sono, in un certo modo, un “applauso” alla credenza in un Principio Vitale di autoguarigione. È lo stesso per tutte le malattie croniche. Come mai il principio vitale permette che si instauri una qualunque malattia per anni? Cosa fa il suo potere di autoguarigione in una poliartrite reumatoide? Occorre allora cercare degli “ostacoli meccanici” nel suo percorso. Evidentemente no, altrimenti si sarebbe saputo!!

Il fallimento di tutte le forme di vitalismo – dal punto di vista clinico, dato che c’era anche un aspetto fondamentale – si è consumato alla fine del XIX secolo. È precisamente in quest’epoca che l’osteopatia nasce e si espande nel mondo. Ciò che accade è dunque un trasferimento bello e buono di credenze. Il vitalismo ha abbandonato il mondo della medicina, dove ha dominato per due secoli, per andare a ricongiungersi con quello delle medicine complementari, in particolare l’osteopatia, dove, come abbiamo spesso detto, sopravvive il più “sobrio”, per non dire il più “puro”.

Orsacchiotto contro Dark Vader

Abbiamo dunque ereditato vecchie idee, documentate sin da Ippocrate, ma che ne facciamo delle critiche che hanno suscitato? Siamo così stupidi da adottare delle credenze giudicate puerili dai nostri anziani? No! Dato che la storia non è mai semplice! Altri elementi sono entrati in gioco. Prendiamo la critica al vitalismo, evocata precedentemente. Che fare di un principio che, in realtà, fallisce ogni volta che uno si ammala in maniera cronica, o più semplicemente, muore? La soluzione più soddisfacente a questo problema è di introdurre la reciprocità. Il Principio Vitale non è una forza da “orsacchiotto”. Uccide così come fa nascere, in nome della preservazione dell’esistenza. In altri termini, bisogna ammettere che esistono, nel corpo, delle forze di autoguarigione, per certo, ma anche delle forze autodistruttive. Le vediamo all’opera nella fisiologia della costituzione della pelle dove i cheratinociti accettano di autodistruggersi per proteggerci. Miliardi di cellule, ricche come le altre, si sacrificano affinché le nostre funzioni interne vengano preservate. Questa morte, che si chiama apoptosi, si compie senza batter ciglio, senza che ci sia alcuna reazione infiammatoria. Una morte pulita. È l’autodistruzione in nome della vita. La vediamo anche nella creazione dei tessuti embrionali. Le nostre dita palmate cedono il posto alle dita separate. Lo osserviamo anche nel lavoro di equipe di osteoblasti e osteoclasti che, assieme, assicurano la creazione di capolavori ossei, a partire da “blocchi di marmo” iniziali. Affinchè la vita possa esistere c’è una vera e propria collaborazione e integrazione tra le capacità di autodistruzione e autoguarigione.

Le ricerche mediche attuali cominciano a comprendere meglio questo potere di autodistruzione. Gli si attribuisce un ruolo sempre più importante nella comprensione della patologia umana. Questa autodistruzione era conosciuta da tempo nei fenomeni detti autoimmuni, dove il corpo “attacca” se’ stesso. Attualmente, si va ben più lontano: in quasi tutte le malattie dette “severe”, la fine regolazione tra le capacità di autodistruzione e autoguarigione viene a deteriorarsi.

Il principio vitale non può dunque essere ridotto e confuso con la sua funzione di autoguarigione. Sarebbe in contraddizione con il nostro vissuto. Si esprime per garantire la sopravvivenza attraverso due capacità: quella di autoguarigione e quella di autodistruzione. Questo è il motivo secondo cui uno può sopravvivere con una malattia cronica. Il Principio Vitale mira ad assicurare la sopravvivenza qualunque cosa accada, e per farlo dispone di due grandi meccanismi: la salute e la malattia. Gli antichi avevano dunque ben ragione: bisogna rispettare la malattia tanto quanto la guarigione. Le patologie sarebbero tutte, in quanto proprietà del vivente, dei modi di sopravvivere. In osteopatia, noi riproduciamo un po’ questa dialettica nei confronti di una lesione, consideriamo sia l’aggiustamento diretto, sia l’esagerazione. Infatti, si dovrebbero forse incoraggiare le forze di autodistruzione per guarire qualcuno. Paradosso divertente il fatto che noi ci imponiamo la preoccupazione per la recprocità nei Principi. Delle belle prospettive di ricerca per la medicina in generale e per noi in particolare, e un ragionamento che può andare molto più lontano. Potremmo dire, per esempio, che la morte interviene quando il Principio Vitale non dispone più di alcun mezzo, ne’ per l’autodistruzione ne’ per l’autoguarigione, per continuare ad assicurare la sopravvivenza. Tutti i processi della salute e tutti i processi patologici sono stati tentati. Le malattie più severe, come il cancro, saranno allora gli ultimi tentativi di sopravvivenza. La globalità che implica il Principio Vitale può farci pensare che il nostro Principio Vitale interiore non lavori più “da solo”. Obbedisce fortemente ad un Principio Vitale più globale, quello che regola le nostre collettività umane e oltre.

E nella stessa maniera in cui il nostro Principio Vitale da’ l’ordine a certe cellule di morire per il bene della collettività, può essere che la morte interviene come una richiesta fatta all’individuo di compiere la sua apoptosi per il bene della collettività. Questo aprirebbe nuove possibilità nella nostra coscienza attuale su ciò che significa la morte, e nella nostra volontà di non esserne più costretti.

Riportare la simmetria e la reciprocità in tutti i nostri princìpi apre molti orizzonti. Le nostre credenze diventano ancora più evidenti e meno necessarie da validare una per una, per quanto appaiono come delle banalità geniali. È anche questa una credenza nella globalità.