Traduzione di Andrea Gasperoni Ferri, DO
Articolo originale: http://www.approche-tissulaire.fr/le-blog/archive-blog-approche-tissulaire/86-de-la-presence.html
La presenza, ancora oggi, resta per me un concetto carico di mistero. Sebbene abbia compreso alcuni suoi aspetti, riconosca la sua importanza e riesca a utilizzarla con un certo grado di successo, la percepisco come un elemento essenziale nella relazione che si crea con il paziente (o, più in generale, in ogni relazione autentica). Tuttavia, rimangono diversi parametri che, almeno per quanto mi riguarda, continuano a sfuggirmi.
Riflettere sulla presenza mi ha portato (e continua a portarmi) verso il concetto di coscienza. Non riesco più a separare la presenza dalla coscienza: per me le due dimensioni sono inseparabili. Questo è sul piano teorico. Sul piano pratico, invece – quello della messa in atto – sento quanto siano fondamentali i due principi su cui insistiamo durante gli stage di formazione: il radicamento e il lasciar andare.
Radicamento
Quando parliamo di radicamento, ci riferiamo alla materia, alla densità, ma percepisco che esso implica anche un lasciar andare. Più ci addentriamo nella densità – un processo che può generare sforzo e un inevitabile contro-sforzo uguale e opposto – più avverto la necessità di viverlo come un lasciarsi cadere. È come lasciare andare quella parte di noi che è pesante.
L’immagine che oggi mi si presenta è quella di un corpo massiccio che scende lentamente ma inesorabilmente verso il fondo, perché il legame che lo tratteneva in superficie si è spezzato o si è rilassato. Spesso utilizzo questa immagine non solo durante gli stage, per aiutare i partecipanti a trovare il proprio radicamento, ma anche con me stesso e con il paziente, per raggiungere un radicamento profondo. Posso confermare quanto l’immagine o la metafora siano strumenti più efficaci delle semplici parole.
Il radicamento è per me fondamentale perché offre un punto di appoggio fisico, una base che permette di intervenire con efficacia sulla struttura corporea del paziente. Tuttavia, sento chiaramente che, se non è accompagnato dall’altra componente della presenza – il lasciar andare – il lavoro diventa faticoso e, a lungo andare, porta facilmente all’esaurimento.
Lasciar andare
Ho scelto questo termine per definire la seconda componente della presenza. Ma la domanda rimane: a cosa corrisponde realmente il lasciar andare?
Trovo difficile esprimerlo pienamente a parole. Il lasciar andare mi dà l’impressione di stabilire un collegamento tra due poli – basso e alto, pesante e leggero, terra e cielo. Tuttavia, converrete che queste parole, per quanto evocative, restano limitate nel catturare l’esperienza vissuta.
Oggi lo interpreto come un riconnettermi alla Coscienza. Ho la sensazione che, sebbene la percepiamo come molteplice, la Coscienza sia in realtà UNA. È il modo in cui la sperimentiamo che ci fa credere alla sua molteplicità, quando probabilmente è unica e indivisibile.
Il lasciar andare rappresenta l’abbandono della credenza nell’esistenza di questo piccolo “io” individuale, per aprirsi a ciò che è l’essenza stessa delle cose: la Coscienza, che potremmo chiamare “Io” con la maiuscola, oppure riferirci al Divino… Ognuno può usare il proprio linguaggio e le proprie referenze.
Quando accade, si manifestano fenomeni nella relazione tra la coscienza corporea del paziente e la mia, fenomeni che sono in gran parte inesprimibili. Le parole, infatti, sono troppo limitate: non solo per il loro significato, che varia molto da persona a persona, ma anche per la natura lineare del linguaggio, che ci consente di esprimere un’idea, un concetto, o una percezione alla volta. In realtà, però, ciò che accade comprende centinaia, forse migliaia di sfumature simultanee.
Collegamento
Questo lasciar andare, per me, funziona solo se associato al radicamento, a quel punto di appoggio che mi impedisce di perdermi nel processo. Eppure, quando lascio andare, ho la sensazione di connettermi a qualcosa di altro – qualcosa di immensamente più vasto, potente e intelligente di me – che, in un certo senso, “fa il lavoro” al posto mio. In quel momento, io non sono altro che un tramite, un ponte.
Mi torna in mente una citazione che Becker attribuiva a Sutherland(1):
«Più vicino a me del respiro è il Creatore del meccanismo craniale. Più vicino al paziente è il Creatore suo meccanismo craniale… Le mie dita, che pensano, sentono, vedono e sanno, sono guidate intelligentemente dal grande Architetto che ha concepito questo meccanismo. L’interpretazione che io ne do ha poca importanza, a condizione che il mio tram mentale sia connesso alla linea elettrica».
Radicamento e lasciar andare, allora, sembrano connetterci a due punti di immobilità, forse i due poli estremi della coscienza. Nel nostro modello, infatti, la coscienza implica separazione. Il nostro compito, quindi, è camminare tra questi due poli, trovando la posizione e il centro ideali in base alle esigenze del paziente. Solo così possiamo offrirgli i punti di appoggio che gli mancano, consentendo la liberazione di ciò che può – o deve – essere liberato.
1: «Closer to me than breathing is the Creator of the cranial mechanism… Closer to the patient is the Creator of his or her cranial mechanism… My thinking, feeling, seeing, knowing fingers are guided intelligently by the Master Mechanic Who designed this mechanism. It matters not what interpretations one may apply, providing one’s mental trolley is on the wire». Tratto da: Be still and know, conferenza dedicata a William Garner Sutherland e presentata a Philadelphia, Pennsylvanie, il 22 settembre 1965 da Rollin Becker. In Becker, Rollin, 1997. Life in Motion. Rudra Press, Portland, 374 p., ISBN : 0-915801-82-5. pp. 24-38.
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