In questi giorni di fermo (obbligato) rifletto sulla posizione che occupo in quanto osteopata/terapeuta, sulla qualità e il significato della mia presenza in questo contesto terapeutico. Quale posto occupo nella relazione con il paziente? Qual’è il mio spazio, il suo, lo spazio condiviso? Mi chiedo cosa sia presente in questo spazio e cosa viene creato nell’interazione/scambio della reciproca presenza.

Siamo individui/coscienze contemporaneamente presenti a sé stessi, al proprio io, e all’ambiente circostante (non-io, per dirla con l’osteopata Pierre Tricot). Contemporaneamente conserviamo e proteggiamo un io/identità individuale e manteniamo aperti canali di comunicazione per accogliere informazioni inedite provenienti dall’ambiente (non-io). Lo scambio è costante e vitale, che ne siamo consapevoli o meno ed è, in una certa misura, indice di salute, perché come ricordava il vecchio dottore “il movimento è vita”.

La nostra presenza fisica occupa inevitabilmente uno spazio. Attraverso il nostro corpo e lo spazio che con esso occupiamo partecipiamo alla creazione di processi cognitivi, biologici, ecc.. nostri e di chi è nelle nostre vicinanze, ancor più delle persone con cui interagiamo direttamente. Creiamo corresponsabilmente la qualità di uno spazio sia condiviso che personale.

Secondo Aristotele il vuoto non esiste affatto; “La natura aborre il vuoto” diceva. Egli osservava che quando da un luogo viene rimossa tutta la materia, immediatamente nuova materia si precipita a colmarlo. Culturalmente tendiamo a considerare il vuoto come un nulla non-esistente. È instillata nella profondità del nostro inconscio l’idea che qualcosa c’è oppure non c’è, che tra le cose esista uno spazio “vuoto”, sinonimo di inesistente. Ma oggi sappiamo bene che il cosidetto ‘vuoto’ non esiste, se non ai nostri occhi ed ai nostri limitati organi e processi percettivi.

Penso: Questa mente dicotomica è proprio diabolica! (dia, attraverso, di traverso + ballo, da bàllein, porre/gettare, quindi che mette in mezzo, separa). Le parole, in questo caso ‘spazio’ e ‘vuoto’, influenzano il modo di pensare di chi le pronuncia, le pensa e se ne alimenta. Se davvero credo che non ci sia nulla “nel mezzo”, considererò questo ‘nulla’ come privo di significato, superfluo ed inutile.

Dato che, come terapisti, occupiamo uno spazio (privilegiato) nella relazione di aiuto, penso sia il caso di essere coscienti di uno spazio che è tutt’altro che inesistente, che occupiamo e del come lo occupiamo. Perché? Perché abbiamo la responsabilità ed il dovere di creare una RELAZIONE (di aiuto in questo caso) sana, rispettosa e fruttifera. Una relazione che considera lo spazio condiviso come vitale è per forza sana perché riconosce il valore e la qualità di ciò che nello spazio è contenuto, cioè: io, tu, con le relative complessità e le informazioni condivise in questo spazio/campo. Al contrario, una relazione priva di spazio e confini è confusa e caotica, al limite di un’esistenza definibile come un confuso e indistinto ‘brodo’ di idee e cellule.

Essere nel nostro spazio come terapeuti ci mantiene coscienti del fatto che non dobbiamo cambiare le persone, le loro credenze, storie, ecc. per adattarle ad una nostra egoica idea di “salute”.

Essere presenti e consci del proprio spazio è fondamentale poter creare un solido ancoraggio dal quale ascoltare e conoscere la persona che abbiamo di fronte, con la sua personale ed unica storia.

Da questo spazio possiamo stimolare nuove prospettive a partire dalle rispettive storie, nuove e differenti possibilità (già presenti ma latenti) anche di guarigione. Il nostro ruolo è quello di renderli più funzionali a partire da ciò che è GIÀ PRESENTE in loro. Prendendo in prestito un concetto molto ben espresso dall’osteopata francese Pierre Tricot, potremmo far si che venga ‘attualizzato’ uno stato ‘potenziale’, cioè una condizione di salute potenzialmente presente ma che ha trovato ostacoli nella sua attualizzazione/manifestazione. L’osteopatia (e non solo chiaramente) non è quindi l’applicazione di tecniche che vengono “impartite” dall’esterno con lo scopo di costringere un organismo a fare ciò che noi abbiamo deciso… non esiste nessun tocco magico che miracolosamente fa scomparire un dolore, ed anche se ciò accadesse non sarebbe certo magia ma un input ad un processo fisiologico di auto-guarigione inerente ed innato (the inherent treatment plan per dirla con Rollin Becker DO).

Essere presenti nel nostro spazio di terapeuti significa anche non proiettare idee o conclusioni, non avere preconcetti. Spesso, sopratutto agli inizi, siamo portati a pensare che una certa dose di empatia, di coinvolgimento e comprensione nel dolore del paziente, il fargli capire quanto siamo presenti al suo dolore, possa aiutarci ad essere più efficaci sia a livello diagnostico che terapeutico, secondo un’oscura equazione partorita dal nostro ego. Niente di più illusorio. Così facendo creiamo una condizione di forti aspettative, sia da parte nostra che del paziente. Abbandoniamo il nostro spazio in favore di una direzione che noi crediamo di poter determinare, in cui noi saremo efficaci (l’ego gioisce ed esulta) ed il paziente starà meglio (grazie a noi).

Ma cosa possiamo mai saperne noi dei trilioni di cellule, molecole, fotoni, particelle, che già sono all’opera prodigandosi per manifestare il miglior stato di salute possibile in quel dato momento? Di fronte ad una tale complessità del microcosmo umano inserito nella vastità del cosmo, possiamo solo porci umilmente e fare del nostro meglio per riconoscere e sostenere quei processi di salute che già sono in atto.

Avere aspettative significa considerare tra le infinite ed inconoscibili possibilità solo quella piccolissima porzione di realtà che abbiamo concepito nella nostra testolina, così sprovveduta da sperare che le cose vadano come si è prefigurata, eliminando o ignorando tutto il resto, un’infinito spazio di tesori e sorprese. Occorre coltivare una sana “spregiudicatezza“, ovvero assenza di giudizio/pregiudizio, il voler sapere a priori come è o debba essere una determinata cosa.

Dov’è qui il nostro spazio? Abbiamo abdicato totalmente ad esso e alla nostra presenza per seguire un percorso mentale, un’idea, una speranza vana che prima poi ci presenterà il conto sotto forma di disillusione. Come terapeuti siamo scomparsi e con noi il nostro ruolo e la possibilità di essere d’aiuto per il paziente. Seguire ciò che abbiamo predeterminato nella nostra mente va nettamente contro agli sforzi che il nostro paziente/cliente sta facendo per attivare dei processi di guarigione NATURALI per lui, per trovare un suo specifico ed unico equilibrio.

In una parola sola dovremmo essere NEUTRI. Parola questa alla quale spesso viene data un’accezione negativa, come se si trattasse di ignavia, di mancanza di presenza e viltà! Niente di tutto ciò!

Essere neutri (o per meglio dire in osteopatichese: essere al neutro) significa porsi in una posizione di totale ascolto in assenza di aspettative, in assenza di un ego desideroso che le cose vadano come lui spera (con gli scopi più disparati, consci o meno che siano). Essere in una posizione di ascolto neutro, ben centrati e radicati nel proprio spazio, significa rimanere aperti a ciò che è, ricevere informazioni utili dai tessuti del paziente, vedere ciò che prima non riuscivamo a vedere perché presi dai NOSTRI pensieri e aspettative. Solo se riusciremo a fare questo potrà avvenire un reale scambio di informazioni tra noi ed il paziente, dove attraverso la nostra presenza/ascolto potremo supportare ed amplificare un processo di guarigione già all’opera.

Mantenendo il mio spazio offro al paziente la possibilità di fare altrettanto, cioè di occupare il suo spazio, all’interno del quale ci sono tutte le risposte e le strade verso salute e guarigione. Mantenere il nostro spazio è un invito silenzioso a fare altrettanto e facendo ciò potremo incentivare uno scambio di informazioni proficuo ed autentico, scevro da aspettative o imposizioni.

In questo contesto il tipo di tecnica utilizzata è secondario, ogni tipo di approccio funzionale a quel momento terapeutico specifico è corretto. Un semplice ascolto in presenza, approcci funzionali-indiretti, tecniche dirette o ad energia muscolare, approcci fasciali… non importa. Sapremo al momento cosa fare e come farlo perché saranno i tessuti stessi del paziente a guidarci nei loro processi terapeutici (“Solo i tessuti sanno” Rollin Becker DO).

Questo non è certo un invito a dimenticare le nozioni cliniche, la necessità di valutare se siamo in presenza di red-flags (controindicazioni al trattamento), le conoscenze anatomo-fisiologiche apprese negli anni, ecc. Si tratta unicamente di porsi in uno stato ricettivo, in una posizione che ci permetta di valutare in maniera integrata — sentire + sapere — per poter compiere le giuste scelte ed azioni terapeutiche, in un’ottica di SERVIZIO, con la mente e col cuore.

PS: questi concetti sono utili ed estensibili alla vita di tutti i giorni, alle relazioni con ogni essere vivente indipendentemente da razza, etnia, o specie. Rendiamoci utili a noi stessi e approfittiamo di questi giorni di isolamento forzato per costruire o alimentare il nostro spazio e la nostra presenza.

Andrea Gasperoni Ferri

Osteopata D.O.

Colonna sonora: “Lacuna / Sunrise” Motorpsycho (spotifyyoutube)

© Immagine: Bang Hai Ja, Light birth (Naissance de lumière), 2014