Riflessioni, dibattiti ed esperienze di un gruppo di studio che si interroga su mani, tocco, osteopatia e identità osteopatica, pensiero, contatto, sul mondo mai abbastanza esplorato della percezione in osteopatia…

Traduzione di Andrea Gasperoni Ferri, Osteopata DO

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Articolo di Jean-Marie Gueulette, direttore del Centro interdisciplinare di etica all’Università cattolica di Lione, pubblicato su ethnographiques.org, rivista in linea di scienze umane e sociali – numero 31 – dedicato alla mano.

Riassunto

L’osteopatia pone grande enfasi sulla mano fino a renderla quasi un simbolo di identità professionale. Il posto che occupano le mani nella pratica osteopatica è importante, se non addirittura identitario per la professione. Gli osteopati parlano spontaneamente delle loro mani come di strumenti diagnostici e terapeutici. Tuttavia, l’analisi mostra che questo tipo di rappresentazione è mescolato con altri approcci più complessi. La mano è un mezzo non solo della percezione e dell’atto terapeutico, ma più profondamente della relazione tra il terapeuta e il suo paziente. Ma è anche molto altro perché la mano è sia il corpo che la persona stessa; in tal modo, gli osteopati possono essere portati ad identificare se’ stessi con le proprie mani. Inoltre, c’è una profonda relazione tra mano e pensiero: l’evoluzione del pensiero conduce a modificazioni nella percezione delle proprie mani, così come la mano lavora per mettere in discussione, stimolare e trasformare il pensiero.

Esame osteopatico di una caviglia. Il terapeuta pone le mani sulla caviglia, mantenendo le braccia rilassate e posate sul lettino o sulle sue cosce. Può sia cercare di percepire l’anatomia e le differenze di densità e mobilità tissulare restando immobile, in uno stato di ricettività; sia muovere le mani sull’articolazione, oppure muovere l’articolazione stessa con le mani per valutare eventuali restrizioni di mobilità.

Introduzione

L’Osteopatia si presenta come una terapia manuale. Lungi dall’essere solamente uno strumento di cura, la mano è presente nel cuore dell’osteopatia per designare uno strumento di percezione se non il luogo stesso della percezione. Uno dei maggiori autori della storia dell’osteopatia, W.G. Sutherland, fondatore dell’osteopatia in ambito craniale, amava usare l’espressione “dita che pensano, sentono, vedono e sanno…” (2002: 27, 61). Al di là della semplice sensazione tattile, la mano e le dita giocano nell’osteopata due ruoli inaspettati. Vedono, ed è in effetti facile dimostrare che, nelle affermazioni degli osteopati a proposito delle loro mani, il vocabolario relativo alla visione è in primo piano. Ma occorre aggiungere a questo dato il fatto che le dita e le mani “pensano e sanno”. Gli osteopati manifestano in effetti una predisposizione molto particolare ad essere capaci di associare delle conoscenze classiche – come l’anatomia, mantenute ad un livello alto durante tutta la vita professionale – con la capacità di “ascoltare le loro mani”, di lasciarle fare, di seguirle con il pensiero quando a volte sembrano condurre là dove non era previsto andare.

Avere fiducia nella propria mano è una dimensione essenziale della pratica osteopatica e del suo apprendimento. Sottolineiamo che l’ordine nel quale Sutherland enuncia le quattro capacità delle dita osteopatiche, pensare, sentire, vedere, sapere, è stupefacente, poiché non presenta una successione lineare che va dalla sensazione al pensiero, o l’inverso, ma è un insieme nel quale le funzioni sensoriali, sentire e vedere, sono inquadrate da funzioni intellettuali, pensare, sapere. Questa formula è ben conosciuta dagli osteopati che spesso la citano, almeno parzialmente. Suggerisce la complessità del rapporto tra mano e pensiero nella pratica osteopatica e ci invita ad esplorarlo.

Le ricerche che da diversi anni conduco sull’osteopatia e in particolare sulla percezione messa in opera in questa pratica terapeutica, sono nutrite da tre tipi di materiali: dei testi, in particolare gli scritti dei fondatori della disciplina che ho letto in francese e in inglese al fine di valutare le difficoltà sollevate dalla loro traduzione ed interpretazione, dei confronti con osteopati che praticano diverse forme di osteopatia, e un’esperienza non solo come paziente, ma anche come “amico” di lunga data di questa professione, e da dialoghi informali con degli osteopati. Ciascuno di questi ambiti di ricerca nutre gli altri e fa sorgere spesso delle domante che mi obbligano a confrontarmi con diversi modi di pensare, spesso completamente differenti da quello al quale il mio lavoro universitario mi ha abituato. “Tu pensi troppo”, mi diceva un osteopata durante uno stage di formazione. “Abbi fiducia nelle tue mani, sono più intelligenti del tuo cervello”. Una richiesta singolare per un universitario decisamente poco abituato a pensare con le sue mani, o ad ascoltare le sue mani pensare…

Le occasioni di dialogo con gli osteopati si moltiplicarono, fino al punto in cui la nostra equipe decise di avviare una formazione specifica di diploma universitario di “Filosofia dell’osteopatia”, avviato dal centro interdisciplinare di etica dell’università cattolica di Lione. Ci sono cinque donne e nove uomini, con un’età dai 28  ai 66 anni, provenienti da diverse regioni della Francia, che vengono due giorni al mese a Lione per seguire questa formazione. Praticano delle forme di osteopatia diverse, quelle principali erano la biomeccanica, l’eziopatia, l’osteopatia craniale o la biodinamica, ma molti tra loro ne mischiavano varie tra loro. Nel quadro di un modulo sulla percezione osteopatica, un dibattito con questo gruppo di studenti riguardava la posizione che assegnavano alla mano.

È a partire dai dati raccolti da queste diverse situazioni che viene condotta questa ricerca sul collegamento tra la mano ed il pensiero in osteopatia. Partiremo dalla posizione accordata alla mano in ambito osteopatico per approfondire l’espressione “curare con le mani” seguendo quattro registri: la mano come mezzo di percezione, dell’atto terapeutico, come espressione dell’osteopata stesso, e della relazione. In un secondo momento esploreremo la relazione tra la mano ed il corpo – corpo del paziente e corpo del terapeuta – dato che molto spesso il discorso sulla mano di allarga a tutto il corpo: i terepeuti che curano con le mani non possono certo limitare le loro osservazioni alla mano. Questo dossier ci permetterà di affrontare in un terzo tempo la questione più difficile da elaborare in maniera rigorosa: il rapporto, in osteopatia, tra la mano ed il pensiero.

L’osteopatia è un mestiere manuale?

Messa a punto nell’ultimo quarto del XIX° secolo nel midwest americano da Andrew Taylor Still, l’osteopatia si afferma subito come un metodo di cura che si distanzia dalla medicina rifiutando l’utilizzo di farmaci, e con un’attitudine terapeutica che mira a rinforzare e ripristinare le naturali capacità di autoguarigione del corpo umano. Per Still, l’atto osteopatico mira, attraverso un intervento manuale, a un riaggiustamento delle strutture corporee che hanno un deficit di mobilità. Un vecchio studente di Still, Daniel D.Palmer, ha fondato nel 1895 un’altro approccio terapeutico, la chiropratica, che si distingue dall’osteopatia per la sua focalizzazione sul rachide, e per l’impiego di diversi strumenti in aggiunta alle mani. Dal 1934 la mano in ambito osteopatico trova un’affermazione molto radicale attraverso una conferenza di J.M. Littlejohn, colui il quale ha introdotto l’osteopatia in Europa: “Fino a quando l’osteopatia utilizzerà le mani come strumento terapeutico, potrà essere chiamata osteopatia pura. Nel momento in cui si adotterà una qualsiasi altra procedura, non sarà più osteopatia” (Littlejohn, 1934). Si potrà così avere l’impressione che curare dei pazienti con le proprie mani sia sinonimo di osteopatia. Tuttavia, altre espressioni ci portano verso una comprensione meno semplice circa il ruolo della mano nella definizione che questa professione dà di se’ stessa.

“Volevo curare con le mie mani”

In un’intervista, l’osteopata Benoit risponde così alla domanda su ciò che lo ha condotto all’osteopatia:

In realtà è da quando ero bambino che desideravo fare un mestiere legato alla salute, è quello che dicevo ai miei genitori, lo volevo veramente, non so esattamente quanti anni avessi, dovevo forse averne 6 o 7, ma ciò che volevo era curare con le mie mani… (Benoit) (1).

Il primo richiamo che B. sente per l’osteopatia è dunque semplicemente quello di poter guarire con le proprie mani. Questa focalizzazione sulle mani potrebbe spingere alcuni terapeuti a parlare di un mestiere manuale riferendosi all’osteopatia, come nel caso di Gérard, che la definisce così nel dibattito: “È un mestiere manuale perché le mani sono l’attrezzo che si ha e con il quale si lavora”. Dobbiamo notare che le mani costituiscono un richiamo per l’osteopatia sebbene non siano di esclusività dell’osteopata. Anche altre pratiche di guarigione (accessibili in Francia), come il massaggio e la chinesiterapia, sono uno strumento per guarire tramite le mani. Tuttavia, sembra quasi che non siano le stesse mani, poiché gli osteopati che erano in precedenza chinesiterapeuti in una prima parte della loro vita professionale sottolineano quanto sia stato per loro difficile “cambiare mano”.

Personalmente, il più grande cambiamento è stato quello di passare da una mano da chinesiterapeuta ad una mano da osteopata. La mano da chinesiterapeuta mi ha molto frenato perché ogni volta premevo troppo, ero troppo in profondità, come quando facevo un impastamento (petrissage), questo mi ha molto bloccato mentre sentivo i miei insegnanti che continuavano a dire: “sopratutto non premete troppo, più premerete e meno sentirete”. (Agata) (2).

A quanto pare c’è una mano da chinesiterapeuta ed una da osteopata, e per quanto questo ci possa stupire in entrambi i mestieri si utilizzano le mani. Sembrerebbe che occorra “passare” da una mano ad un’altra mano, come se si cambiasse uno strumento, come se la mano fosse qualcosa di esterno alla persona. Una tale espressione va sottolineata perché è in contrasto con il seguito del dibattito nel quale tutti hanno insistito sulle interazioni profonde tra mani e corpo, al punto da non distinguere più tra mano e persona. Questa maniera di entrare in contatto, attraverso la mano, con il corpo del paziente, è così differente tra le due professioni che nelle loro rappresentazioni sono due mani differenti: è l’intenzione a fare la mano. Ritroviamo la stessa idea nella domanda che Richard, osteopata di una sessantina d’anni, pone al gruppo:

Quando sento gli osteopati parlare della mano, della sensibilità, ho l’impressione che come professione ci si ritenga un’élite… ma voi pensate di avere una mano migliore di qualcun’altro? Penso che semplicemente ci siano mani, e che ogni lavoro sviluppi una sua mano. C’è un passaggio in cui Claude Barnard dice qualcosa di molto interessante, cioè che un buon sperimentatore deve avere una mano, che non c’è pensiero senza mano. Senza mano non sarà mai un buon sperimentatore. Io penso che sviluppiamo la mano della nostra funzione. (Richard)

L’Osteopatia è un modo di curare con le mani; non è l’unico, ma suscita una maniera particolare di utilizzare la mano nella cura, una maniera che dovremo precisare e che la rende differente da altre professioni. Tentando di precisare se l’utilizzo della mano è talmente specifico nell’osteopatia al punto da costituire una condizione necessaria, il gruppo è giunto a discutere sull’ipotesi di una pratica osteopatica privata dell’uso delle mani.

Se le mani mi venissero amputate potrei ancora lavorare? Beh, credo di si, anche se non sarebbe lo stesso. Le nostre mani “anatomiche” sono indispensabili al lavoro che svolgiamo? Certo sono molto utili, la cosa non mi farebbe certo piacere, non potrei più lavare i piatti ma potrei comunque fare l’osteopata. Penso che modificherei il mio modo di lavorare ma che potrei comunque ricevere pazienti e continuare a fare l’osteopata. (Bénédicte)

Le mani non sarebbero dunque completamente indispensabili per praticare l’osteopatia, ma a condizione che l’osteopata abbia potuto apprendere inizialmente il mestiere con l’utilizzo delle mani. È l’esperienza acquisita attraverso le mani che permette in un secondo tempo di farne a meno, e può essere la ragione per la quale la mano appare come una manifestazione primaria dell’identità dell’osteopatia. Il dispensario aperto al pubblico di una scuola di Osteopatia parigina porta come titolo: “A mani nude”.

Io penso che sia possibile fare osteopatia senza le mani, o magari con i piedi, ma non senza un contatto fisico dato che non ci sarebbe un mezzo. Le mani sembrano essere per il corpo un attrezzo, per gli osteopati un investimento, anzi un sovrainvestimento essendo un attrezzo decisamente appropriato per ciò che potremo definire manipolazione, di qualunque tipo essa sia. Credo che le mani siano un luogo di identità, dell’osteopata e dell’osteopatia, un luogo che riunisce  a livello identitario. (Bob) (3).

Ci troviamo dunque davanti a una situazione paradossale, nella quale l’impiego delle mani è considerato come il simbolo stesso dell’osteopatia, dato che non si tratta solamente di curare con le mani, ma di farlo in un certo modo, che non è sempre precisato; e allo stesso tempo si incontra la convinzione che le mani non sono assolutamente indispensabili alla pratica osteopatica, dato che il modo di percepire che il terapeuta sviluppa di solito con le sue mani, può essere vissuto anche con altre parti del corpo.

Attrezzo, strumento o mezzo

Questi primi dati ci hanno permesso di comprendere l’ambiguità che accompagna il riferimento osteopatico alla mano: è un attrezzo, che quindi possiamo cambiare come quando si cambia lavoro, è uno strumento che apporta delle informazioni, o è un mezzo? Qualora fosse un mezzo, di cosa lo è? La mano riassume tutta l’osteopatia al punto che un’osteopata non sarebbe altro che la sua mano? Si ha a volte l’impressione di questo quando si sentono certi osteopati parlare dei loro maestri che ai loro occhi avevano “una mano eccezionale”, “delle mani d’oro”. Bob si interroga su questa relazione tra il soggetto, il suo corpo e la sua mano:

Attualmente, non sono così sicuro di poter ridurre la mano alla mano. Pensavo ad un’ipotesi che meriterebbe di essere sviluppata: se la mano è in continuità con il corpo del terapeuta, trovo assai difficile tagliarla fuori rendendola in qualche modo un oggetto, ed allo stesso tempo in osteopatia in questa regione anatomica si colloca la metafora della percezione, più precisamente nelle dita dato che Sutherland parla di dita. C’è dunque l’effetto di un mezzo, ma allo stesso tempo questo effetto è in una contraddizione che è senza mezzo, è un mezzo immediato. Io pongo la questione in questo modo. C’è una certa tensione nella domanda “cos’è una mano per un’osteopata?”, ci si potrebbe chiedere cosa è un corpo, cos’è il corpo dell’osteopata, qual’è la funzione del corpo dell’osteopata? È forse di divenire una mano? Dopotutto, perché no, in questo percorso di apprendimento della percezione che è l’osteopatia, questo lavoro viene diffuso dalla percezione a partire dalla mano dell’uomo, dalla mano e dalle sue dita, dal palmo, dal suo lato interno, e allo stesso tempo, siccome la mano non è un oggetto in se’, c’è qualcosa che trovo immediato, che sarebbe ignorare il mezzo. A questo punto c’è una sorta di confusione, di sovrapposizione tra l’oggetto mano e la percezione. (Bob)

Parlare della mano come di un’attrezzo, significherebbe in un certo qual modo tagliarla fuori, separarla dal corpo per trattarla come qualcosa che non è del corpo ma che il corpo utilizza. Questa oggettivazione della mano nel discorso di Bob, si trova presa tra due estremi che sono le dita ed il corpo, all punto che Bob si pone la questione di un corpo che dovrebbe diventare una mano e che Sutherland riduce la mano a delle dita. La mano ha allora una funzione metaforica che designa la capacità percettiva del terapeuta, come nel caso delle dita secondo Sutherland, ma in una relazione abbastanza sfocata con la mano anatomica.

Come ci si trova spesso in questa situazione dialogando con degli osteopati, bisogna forse arrivare a comprendere che fino quando parlano della mano, non è veramente della mano che parlano, o almeno che non è solamente alla mano anatomica che fanno riferimento. La mano viene valorizzata perché permette un contatto, perché attraverso di essa si realizza qualcosa che è più nell’ordine di un contatto corpo-corpo. Attraverso di essa di stabilisce un contatto tra paziente e terapeuta, contatto che permette di accedere ad una forma di sapere, di conoscenza del paziente, che va oltre a ciò che un esame clinico medico può mostrare. Il sapere attraverso il contatto dell’osteopatia conduce non solo a delle disfunzioni meccaniche, ma anche alla condizione della persona, ad elementi della sua storia (malattie, cadute, traumi emotivi).

La mano è un mediatore, è ciò che mi permette di avere un contatto, di entrare in contatto con il paziente in una data zona, in un dato spazio. Nel mio lavoro mi permette di entrare in contatto con il paziente, mentre qualcuno sostiene che non ce n’è bisogno dato che alcuni sono in grado di lavorare più o meno a distanza, ma per quanto mi riguarda ho veramente bisogno di questo contatto, ed è rispetto alle informazioni che ho in partenza e che passeranno dalle mie mani, ma spesso la mano non ha che un veloce contatto con il paziente mentre è tutto il mio corpo che andrà a ricevere, a interpretare, come dice Merleau-Ponty: il nostro corpo si confonde con tutto quello che sappiamo. All’inizio del mio percorso per molto tempo mi è stato detto “si sente con la punta delle dita, gli occhi devono essere sulla punta delle dita”. Ho fatto questo talmente tanto a lungo che una volta ho avuto male agli occhi. Ho sentito così la necessità di uscire da quest’idea di mettere gli occhi sulla punta delle dita, occorreva che ne uscissi. (Adèle)

Adèle descrive questa evoluzione professionale senza prestare attenzione al registro che utilizza nella sua espressione a al carattere “deviato” di quest’anatomia che mette gli occhi sulla punta delle dita, dato che non sono altro che una modalità di espressione di una predisposizione interiore, di una maniera di focalizzare o meno la propria attenzione percettiva. Questo ci invita ad abbandonare rapidamente l’idea della mano come strumento, dato che è implicata nella percezione e non in una mera operazione di misura. Dobbiamo cercare di chiarire questi differenti registri di espressione: andremo allora a precisare di cosa la mano è mezzo, o attrezzo, nella pratica osteopatica: della percezione, dell’atto terapeutico, della relazione o di un’espressione personale dell’osteopata verso il suo paziente?

Della percezione

Quando un’osteopata comincia a parlare della sua mano come di uno attrezzo, possiamo constatare spesso che ben presto sconfina da questa rappresentazione, reintegrando la mano nel corpo e nella persona. La referenza alla mano come attrezzo lascia presto spazio ad altro, in particolare attraverso l’espressione “essere nella propria mano”. La mano non viene descritta allora come un attrezzo, come una sorta di oggetto distaccato dal corpo e dalla persona che si utilizza per realizzare uno scopo; fa pienamente parte della persona, al punto di concentrare tutte le sue capacità percettive.

Pierre: “Si sente subito quando un terapeuta è nella sua mano, presente, veramente attento alle sue percezioni, è centrato, neutro, aperto alle sue percezioni, non come uno che appoggia la sua mano e parla allo stesso tempo. L’abbiamo provato tutti durante i nostri studi, quando il nostro compagno con la mano appoggiata su di noi ci tritura il ventre mentre parla con qualcun’altro e non presta attenzione a ciò che fa, dopo un po’ non è per nulla piacevole anche se non ci fa male, ma sentiamo subito quando il terapeuta è nella sua mano e presta attenzione a ciò che fa”.

D. “È una questione di presenza?”

Pierre: “C’è una questione di presenza, di neutralità, lui è centrato. Non cerca di fare

D. “È presente ma non agisce?”

Pierre: “ È presente ma non agisce. Non va verso, è solamente presente, è proprio lì. È ciò che io chiamo essere presente nelle mie mani, nelle mie percezioni, dimentico che ho un contatto mentre tutte le percezioni sono globali e le sento. Tu non sei una mano, un gomito, una spalla; non penso di utilizzare la spalla per muovere, lo faccio istintivamente, è l’insieme delle percezioni e dell’azione che è molto più globale, è quello che chiamo essere presente nelle proprie mani, essere presente nelle proprie percezioni”.

Essere nelle proprie mani è dunque un’attitudine interiore che non è la semplice concentrazione dell’attenzione sulla mano. Se si discute lavorando, se non si presta attenzione a ciò che si fa come se si avesse un attrezzo nelle mani, la relazione non sarà confortevole per il paziente, e senza dubbio sarà poco feconda per il terapeuta. Un falegname può parlare quando ha in mano un attrezzo come ad esempio una pialla, ma diventa silenzioso se utilizza un attrezzo potenzialmente pericoloso, o un attrezzo che necessita di grande precisione. Tuttavia la sua concentrazione non deve essere focalizzata esclusivamente sull’attrezzo, e ancora meno sulla mano: deve prestare attenzione al pezzo di legno, al proprio corpo, ecc. Mi sembra questa il tipo di attitudine di cui parla Pierre quando dice che occorre essere “proprio lì” o essere “nelle proprie mani”. Bisogna essere presenti all’insieme delle percezioni e dell’azione e non focalizzati sulla sensazione percepita localmente a livello delle mani. Si raggiunge qui una definizione generale della percezione che articola ciò che è nell’ordine della sensazione fisica e che qui viene situato principalmente nella mano, con ciò che rientra nell’ordine della conoscenza, dell’esperienza e delle capacità di analisi.

Merleau-Ponty la descrive come una forma di comunione del soggetto con ciò che percepisce (2012 : 256), e questa nozione chiarisce bene la situazione di scomodità vissuta dal paziente quando il suo apprendista terapeuta parla con il collega. In osteopatia, la percezione con la mano non è una mera registrazione di dati, ma un entrare in relazione.

Dell’atto terapeutico

Le mani dell’osteopata possono essere descritte anche come degli attrezzi con i quali compiere un lavoro meccanico di correzione, di aggiustamento della struttura. Ma l’atto terapeutico osteopatico, dato che viene messo in opera senza mediazioni da un essere umano su un altro essere umano, è relazione, e pertanto l’azione meccanica si associa ad altri contesti. Gérard, che tenta tuttavia di dare un’interpretazione anche biomeccanica del suo lavoro, la descrive così:

Le mani osteopatiche diverranno degli attrezzi di guarigione, accompagnando i tessuti, indicando una direzione, a volte esse si faranno rigide per trasmettere una forza di correzione, altre volte flessibili per seguire, accompagnare una direzione indotta dalla disfunzione tissulare del paziente. Mani sempre rispettose, benevole, a volte ferme, altre volte dolci, potranno suscitare un “dolore che fa bene”, risvegliare delle vecchie memorie tissulari dimenticate. Avvolgeranno, rassicureranno, a volte spingeranno il tessuto connettivo. È tutto questo una mano osteopatica, e molto altro ancora. Queste mani osteopatiche genereranno a volte delle emozioni, non è raro che il paziente si sciolga in dei singhiozzi. A volte, all’insaputa del terapeuta e del paziente si stabilisce una comunione, più profonda, più intima, i corpi si sincronizzano, si crea una comprensione difficile da descrivere a parole, si crea una forma di alchimia e un ambiente permeato di pace e comunione universale. (Gérard) (4)

I contesti nei quali si sviluppa l’atto terapeutico si inseriscono gli uni negli altri, cominciando da un aspetto meccanico con impressioni come “forza di correzione, accompagnare una direzione, suscitare un dolore che fa del bene”, o degli aggettivi fisici riferiti alla mano, rigida, morbida, ferma. L’evocazione di una dimensione etica, “mani rispettose, benevolenti”, è paradossalmente applicata non alla persona, ma al tessuto connettivo, dato che è lui ad essere “avvolto, rassicurato, sospinto”. Dal tessuto connettivo, Gérard passa immediatamente ad un registro psicologico ed emozionale, evocando le emozioni, gli eventuali singhiozzi, per concludere con l’evocazione di una dimensione di tipo spirituale che associa comunione, sincronizzazione, comprensione, pace, non solamente tra le due persone in relazione, ma anche tra loro e l’universale. L’atto terapeutico è portatore di tutto questo “e di molto altro ancora”, attraverso la mano. Sono infatti le mani il soggetto di tutte queste azioni, come se l’osteopata fosse le sue proprie mani. A meno che non siano queste mani osteopatiche stesse ad operare da sole? Sono autonome rispetto all’osteopata o sono una metonimia di ciò che è in quanto osteopata?

Dell’espressione del terapeuta

Lo stesso terapeuta (Gérard), in una lettera riguardante la mano in osteopatia che mi ha inviato, descrive come lui vede l’implicazione della mano nello svolgersi di una consultazione. Ciò gli permette di notare che l’implicazione inizia nei primi istanti dell’incontro, nella sala d’attesa.

Nella sala d’attesa, la mano che dice “buongiorno” al paziente, che sia calda, secca, fredda, umida, morbida o rigida, riflette la personalità conscia e inconscia del terapeuta. Come espressione dell’incoscio, informa in maniera subliminale circa lo stato d’essere del momento, ma anche la posizione del terapeuta, la sua fiducia o meno in se’ stesso, la sua integrità, la sua paura, la sua mancanza di fiducia, di impegno, una finta apparenza che tenta di dissimulare qualcosa di indicibile, ecc.. Utilizzata in maniera cosciente può veicolare un’intenzione, una posizione di riconoscimento, di rassicurazione, di benevolenza e accoglienza. (Gérard)

Qui, nulla di fisico, nulla di tecnico, la mano è interamente impegnata nella relazione terapeutica di cui sembra essere il mezzo primairo. Ma ciò che Gérard mette in risalto, è esattamente il contrario di una mano che cercherebbe subito di ottenere informazioni dalla mano del paziente: è invece una mano che veicola l’attitudine interiore del terapeuta. La mano tesa al paziente è per lui un modo di presentarsi, di rendersi accessibile al paziente. Violaine si ricorda di uno dei suoi professori che aveva “mani che erano allo stesso tempo forti e comode, che emanavano qualcosa che andava al di là del semplice calore, c’era una precisione tale nel modo in cui le appoggiava che era rassicurante, con una tale precisione e correttezza nei movimenti che sviluppava”. La fiducia suscitata da queste eccezionali mani trovava la sua origine non solamente nelle sensazioni fisiche come calore, comfort, ma anche nella precisione del tocco e del movimento. L’anatomia, al cuore del sapere osteopatico, svolge molto di più di una funzione di orientamento del gesto terapeutico, partecipa ad una precisione che plasma la relazione. Al cuore di questo mestiere c’è la relazione, attraverso la quale un paziente accetta di “mettersi nelle vostre mani per essere trattato” (Benoit), di abbandonarsi in mani che gli ispirano fiducia, di deporre molto di più del suo corpo.

Aggiungerei anche la nozione di piacere nel lavorare con le mani, piacere nel prendere con le mani, le braccia, di essere avvolgente nel contatto corpo-corpo con il paziente, il contatto, il corpo, non un semplice massaggio, ma il contatto, le mani permettono questo. (Adèle).

La mano viene qui presentata come mezzo di relazione tra il paziente e il suo terapeuta. Questa relazione riguarda il contatto, una reciproca presenza. Per Adèle, come per molti osteopati, questa presenza prevale su qualsiasi forma di azione esercitata dal terapeuta sul corpo del paziente, come ad esempio nel massaggio o nella chinesiterapia, o nell’azione meccanica del chiropratico. Anche se dopo un percorso di apprendimento la percezione osteopatica potrebbe passare anche da altre parti del corpo, anche se alcuni osteopati asseriscono di percepire alla stessa maniera con il ginocchio o il piede piuttosto che con la mano, anche se gli si desse il tempo di abituarsi il ginocchio o il piede non potrebbero ricoprire lo stesso ruolo della mano nella relazione. Nella discusisone sull’osteopata con le ipotetiche mani amputate, Agata reagisce nettamente all’ipotesi di una pratica osteopatica con il piede dicendo: “È necessario che il paziente accetti di ricevere un’altra mediazione”. L’accettazione da parte del paziente è la condizione necessaria per stabilire una relazione attraverso la mediazione della mano. Non si tratta quindi di rimpiazzare un’attrezzo mancante con un altro che apporta le stesse informazioni, ma di usare un mezzo adatto alla relazione terapeutica.

Senza riflessione, senza coscienza, non associate agli altri sensi, senza l’esperienza e il sapere, senza l’etica del terapeuta, le mani ritornerebbero ad essere una semplice parte del corpo dalla biomeccanica sofisticata ma private del senso osteopatico. (Gérard).

Benché questi esperti parlino volentieri delle loro mani, appare che queste siano sempre integrate a ciò che sono sia nella stretta relazione della persona con la sua mano (“essere nelle proprie mani”), sia nelle espressioni che lasciano intendere che parlare della mano è come parlare della persona. Bisognerebbe esplorare l’ipotesi di una definizione della mano che mirerebbe ad evitare di parlare dell’osteopatia come di un corpo a corpo. Gli osteopati sono dei terapeuti che toccano i loro pazienti, che li toccano con delicatezza, in una società che lascia poco spazio al contatto corporeo. Potremmo dire, paradossalmente, che toccano mantenendo una certa distanza: mettere davanti la mano e non il corpo del terapeuta non è, come suggeriva Bob, una maniera di dire: “Ho toccato il suo corpo, ma solamente con la punta delle dita?”.

La mano nel corpo a corpo

La mano è dunque il mezzo di una relazione terapeutica che in osteopatia si sviluppa attraverso un contatto corporeo con il paziente. Questo contatto corporeo supera largamente la mano, al punto che di può parlare di un ‘corpo a corpo’ osteopatico.

La mano sul corpo, primo contatto e sintonia

L’ingresso in questo corpo a corpo avviene attraverso la mano, ed il terapeuta porta una particolare attenzione a questo primo contatto. È infatti essenziale per stabilire una relazione di fiducia. Nei primi istanti questa dimensione relazionale è primaria rispetto allo sviluppo di una diagnosi e della terapia.

Le mani si avvicinano al paziente, il primo contatto di cura è primordiale, occorre controllarlo, il gesto deve essere giusto, adattato, rispettoso, benevolente. (Gérard)

È tuttavia impossibile, nella pratica osteopatica, fare una distinzione assoluta tra l’ambito relazionale, la diagnostica e la terapia, dato che la maniera di entrare in relazione può già avere degli effetti di tipo terapeutico. È ciò che emerge dall’esperienza raccontata da Pierre:

Vedete lo stato in cui si è alla fine di una seduta di osteopatia craniale, dove ci si sente un po’ ondeggiare. Ho fatto un tirocinio da un osteopata, dove nella frazione di secondo in cui ha messo le mani sul mio cranio, ho avuto immediatamente questa sensazione di ondeggiamento, di benessere, nel momento esatto in cui ha posto le mani. Non ci sono stati tempi di pausa, è stato forse nella presa di contatto precedente? A partire dal momento in cui c’è stato contatto con la sua mano, quello che mi ha impressionato, è la velocità alla quale si è sincronizzato con noi, è in contatto con noi. (Pierre)

Notiamo il fatto che l’entrare in relazione viene qui espresso attraverso un termine che è quasi un termine tecnico osteopatico, “sincronizzarsi”. Sebbene sia un termine di uso frequente, è difficile darne una definizione precisa. Questo va oltre l’armonizzazione dei ritmi respiratori o delle posture, sebbene possano essere questi dei passaggi necessari. Questo accordo può essere talmente profondo che diventa impossibile per il paziente sentire la presenza della mano, come se fosse un tutt’uno col proprio corpo:

La mano più straordinaria che ho sentito era come se non esistesse, era Viola Frymann (5), che mise la mano sul mio sacro (6), ma non c’era nulla… ho cercato, ho cercato il contatto con la sua mano ma non sentivo nulla. È stata un’esperienza davvero impressionante non sentire per niente la sua mano. (Richard)

L’ascolto craniale di cui parla Pierre in osteopatia si pratica mettendo le mani sotto l’occipite, senza spingere. (Photo J.M. Gueullette)

La mano e il corpo del terapeuta

Se il primo contatto lo si fà attraverso la mano e suscita un’attenzione particolare del terapeuta sulla sua mano, molto presto lo sviluppo della seduta osteopatica implica molto di più della mano. Sono allora le mani, poi l’insieme del corpo del terapeuta ad entrare in relazione con quello del paziente.

Le mani non sono altro che l’estremità distale delle braccia; le braccia sono collegate al torace e formano con esso un anello aperto. È in questo anello che contiene senza schiacciare che il paziente può sentirsi sicuro. È il fatto di avere le due mani collegate, giunte attorno ad uno spazio vivente che permette che si apra nel terapeuta uno spazio dove egli può accogliere ciò che viene emanato dal paziente e lavorare. Oserei dire che quando uniamo le nostre mani ci mettiamo in contatto con la nostra interiorità. (Adèle)

Questa elaborata descrizione di Adèle ci invita a sentire l’interazione tra i due corpi, che passa attraverso l’anello formato dalle braccia e dalle mani del terapeuta. Non sono le mani a percepire, ma l’insieme delle mani e delle braccia che suscitano nel corpo del terapeuta uno spazio dove avvoglere ciò che viene dal paziente.

Fino a questo momento il ruolo della mano resta relativamente convenzionale, comprensibile in un registro abituale di rappresentazione: la mano opera allo stesso tempo come mezzo per la percezione e come mezzo per la relazione. Tuttavia, nel linguaggio e nell’esperienza osteopatica, incontriamo un’interazione della mano dell’osteopata con il corpo del paziente che è nettamente più complessa, dato che ad ascoltarla, la mano non si accontenta di essere posata sul corpo del paziente, ma vi entra.

La mano nel corpo

Descriverò questo processo a partire da un’esperienza che ho fatto durante uno stage di formazione continua per osteopati al quale ero stato invitato, durante il settembre 2012. Lo stage veniva condotto da un osteopata americano ed io mi trovai a lavorare in coppia con un medico osteopata considerato dai suoi compagni come un terapeuta di livello molto alto. Trascrivo qui di seguito le mie annotazioni:

Martial vuole farmi comprendere cos’è il lavoro attraverso la visualizzazione. Pone le sue dita sulle mie caviglie e mi invita ad essere attendo a dove sarà, una volta “dentro al mio corpo”. In certi momenti, mi chiede “dove sono?”. Sento una presenza che si muove nel mio corpo, una sensazione molto sottile ma netta; ad un certo punto ho l’impressione che tiri sull’uretere, una zona per me dolorosa a causa dei calcoli (calcoli per i quali venivo trattato in quel momento).

Mi dice che ho un problema con i muscoli oculomotori; quindi “lavora” sull’occhio sinistro, lo sento più del destro. Risale sul nervo ottico, sento globalmente che l’emicrania è più presente, ma con meno precisione rispetto a quello che mi dice. Insiste sul fatto che la visualizzazione è fondata sulla precisione anatomica e che incorpora nel suo approccio tutte le scoperte della medicina.

Non ho alcuna spiegazione per quest’esperienza. Tutto quello che posso dire è che è stata vissuta in un clima molto sereno che non mi ha dato l’impressione si suscitare in me una forma di ipnosi o di induzione. Mi ha colpito da un lato la precisione anatomica delle sue descrizioni, dentro al mio cranio, a partire dalle caviglie, e in secondo luogo lato il fatto che l’eco percepibile in me del suo lavoro non era costante: in certi momenti non sentivo nulla di quello che mi descriveva. Questo non ha suscitato in me dubbi sulla pratica, ma al contrario mi suggeriva che non ero manipolato psicologicamente.

In seguito mi ha invitato a lavorare su di lui. Il formatore ci invita a testare la mobilità costale, Martial mi propone di farlo “nel campo materiale ed immateriale”. Campo materiale: testo la mobilità della costa toccandola e comparando il movimento con le coste vicine. Campo immateriale: appoggio un dito sulla costa, senza premere, e con il pensiero mi muovo lungo la costa. Ho in testa l’immagine anatomica della costa e muovo le mie dita lungo la costa nell’immagine della mia mente. Dal canto mio posso dire che non percepivo nulla, non ero in grado di percepire una mobilità. Non dico nulla ma Martial fà de commenti che mostrano che lui mi stava seguendo, che sapeva dov’ero e dove sono, se verso lo sterno o verso il rachide. Dopo quest’esame “immateriale”, rifaccio un test di mobilità e devo riconoscere che la mobilità materiale della costa era cambiata.

Questo mette in luce un aspetto particolare della percezione osteopatica la quale non si limita alla percezione da parte del terapeuta di un paziente che sarebbe per lui soltanto un oggetto passivo. Infatti, anche il paziente partecipa alla percezione: per me che ho avuto un assaggio di quello di cui si tratta è molto più facile percepire qualcosa se lavoro su un osteopata piuttosto che su qualcun’altro. Tuttavia, in questi esercizi, il paziente non parla: non sono dunque questi osteopati che susciteranno in me l’impressione di percepire. La qualità della presenza, la loro presenza nella relazione, ma anche la presenza a loro stessi, la conoscenza che hanno dell’anatomia e quindi anche del loro stesso corpo, sembrano facilitare le cose.

La partecipazione del paziente alla percezione è confermata da Richard in maniera paradossale, dal momento che lui non ha l’impressione di fare questo, ma sono i suoi pazienti a parlarne:

Io uso anche quelle espressioni, ma io sono stupito di quello che i miei pazienti, quando si parla di quello che faccio, mi dicono, “sì, le vostre mani entrano nel mio corpo e poi si spostano”. Sono loro che mi dicono questo; io non lo so esattamente. (Richard)

Occorre sottolineare che questi momenti in cuoi l’osteopata “entra nel corpo del paziente” non ignorano la mano. La mano resta presente nell’esperienza, non solamente perché il terapeuta ha le sue mani sul corpo del paziente, sul suo cranio o le sue caviglie ad esempio, e stabiliscono un contatto tra i due, ma anche perché l’osteopata con il pensiero muove le sue mani all’interno del corpo del paziente, come Martial mi suggeriva di fare sulla sua costa. Non è lo sguardo dell’osteopata ad “entrare nel corpo del paziente”, sono le sue mani.

Io so che non riesco ad andare troppo lontano, ma ho dei colleghi che mi sono reso conto essere capaci di andare dalla testa ai piedi, di prolungare il loro tocco molto di più di quanto non riesca a fare io, si può toccare con degli strumenti che si vedono e altri che non si vedono, è per questo che si può viaggiare dentro al corpo. Ho dei colleghi che riescono a fare questo molto naturalmente, che quando sono alla testa o ai piedi e lavorano sui tessuti poi dicono “è la tale vertebra ad essere in disfunzione”, io non riesco a fare questo.  (Marc)

“Io non riesco a farlo” è un’espressione da ricordare, perché sottolinea il fatto che il processo di visualizzazione dell’osteopata che percepisce dentro al corpo del paziente, non avviene in maniera automatica. Non sono in grado di utilizzarlo tutti gli osteopati, quelli che riescono non vi hanno sistematicamente accesso, e quando accade gli riesce comunque difficile esprimere con precisione ciò di cui si tratta.

Io l’avevo detto: quando si parla qui, si ha l’impressione di essere sempre nella percezione; è molto complicato. Delle volte ti siedi, poi cerchi, e non arriva nulla; possono esserci dei momenti dove ricevo un’immagine con la quale posso lavorare. Ma ci sono molti momenti d’attesa, dove vedi un po’ quello che viene e cerchi di rimanere in una modalità ricettiva. Per me è molto più noioso che dire: “è tutto qui, non c’è altro”. (Adèle)

“C’è una rappresentazione del corpo che si crea in me, ma dove allora? In me, non riesco ad essere più precisa”. (Violaine)

La mano e il pensiero

Concludiamo questa analisi sul posto che la mano occupa in osteopatia soffermandoci sulla relazione tra la mano ed il pensiero. È già emerso che per gli osteopati la mano è ben più di un recettore di informazioni. Ne parlano situandola in un tutto che è il corpo del terapeuta, ma anche nella relazione tra il terapeuta e il paziente. Ne parlano sottolineando come il pensiero interagisca costantemente con essa, sia per facilitare la percezione che per essere confuso da ciò a cui è sensibile la mano.

Una percezione attiva che si pone delle domande

Tra la mano ed il pensiero di un osteopata, il collegamento più semplice da descrivere è quello di una direzione della mano dettata dal pensiero. Il pensiero si fa domande, elabora ipotesi, interroga il corpo del paziente ed orienta il comportamento delle mani. Esistono due tempi in questa relazione tra mano e pensiero: in prima istanza non appena il terapeuta pone le mani sul corpo del paziente, sorgono idee ed immagini, poi in un secondo tempo, più lungo, si sviluppano degli scambi. Il terapeuta si pone delle domande, tenta di interpretare le sensazioni che ha nelle mani e le immagini che si formano in lui, e questo processo intellettuale cambia qualcosa nella percezione della mano.

Torno al concetto di immagine. C’è il paziente che giace steso con il suo “contenitore”, a partire da momento in cui appoggio le mani, è come se avesse un ologramma sul suo corpo, la pelle sparisce e poco a poco le strutture che emergono ne fanno come una copia, un ologramma, ed io ho l’impressione che ci sia come un andata e un ritorno, che si riunisce a me quando faccio la domanda, ho l’impressione che più faccio la domanda di come sia questa struttura, più l’ologramma divenga preciso, più ho l’impressione di avere questa specie di vai e vieni fino a quando a un dato momento ho la precisione per dire cosa non funziona bene e dove, ma è il corpo a dirmelo. Questa nozione di immagine è importante per me, ma passa per le mani. Quando tu dicevi che già a distanza percepisci qualcosa anche in maniera evidente, e quando poni le mani poi qualcosa accade, è quello che succede a me, questa nozione di ologramma dove la pelle scompare e poi ricompare viene ad aggiungersi, la palpazione si affina e riesco a vedere la tibia, riesco a vedere il suo contorno e poco a poco sentirne i dettagli, sapere se c’è uno schock alla tibia, se c’è un condilo femorale in disfunzione; è questo concetto di porre domande, c’è un’andata e un ritorno. (Noël)

Dal momento in cui pone le mani, appare una percezione, a volte sorprendente, ma non rimarrà stabile, evolve nel tempo in un processo di affinamento che passa da una precisione nella percezione e dalle domande che il terapeuta si pone. In altre testimonianze alcuni terapeuti dicono di porre domande alla struttura, al corpo del paziente: sono domande che non vengono verbalizzate ma poste con il pensiero, e vengono indirizzate, potremmo dire, attraverso le mani al corpo del paziente. Il terapeuta porta allora tutta la sua attenzione sui cambiamenti che avvengono nel corpo, in particolare riguardanti la sua mobilità, rispetto alle domande poste.

Un’evoluzione della mano suscitata dall’evoluzione del pensiero

L’esperienza vissuta dal gruppo di osteopati iscritti al nostro corso di Diploma Universitario (D.U.) permette, qualche mese dopo l’inizio di questa formazione, di sentir parlare di un’altra forma di interazione tra il pensiero e la percezione, alla quale noi di solito non facciamo attenzione. Il lavoro di riflessione filosofica fatto sulle loro esperienze professionali ha suscitato in alcuni di loro un’evoluzione nella percezione osteopatica. Eccone due esempi:

Per quanto mi riguarda la mia mano non è cambiata quando ho appreso tecniche nuove e differenti, è cambiata quando ho riflettuto sul come lavoro, sulla nozione di potere sul paziente, più sulle questioni intellettuali che sono state interiorizzate, comprese, che hanno modificato il mio contatto con il corpo del paziente. È per questo che il D.U. ha scosso delle cose nelle mie percezioni, so esattamente dove sono lì. (Adèle)

Ho l’impressione che ogni volta che approfondisco il concetto di corpo, di salute, di cosa siano, ecco che questo si traduce nelle mie mani. Per esempio, quando faccio un monitoraggio con i miei pazienti dico “ehi, questo è qualcosa che non sentivo prima, ora viene nelle mie mani”, è il caso di dire che va più veloce, è più preciso, è più rapido diagnosticare e comprendere cosa accade. Spesso dipende anche dal mio stato interiore, per esempio se sono stanco o un po’ giù di morale. So che le due settimane successive al corso D.U., ho l’impressione di essere il Re del petrolio, che niente mi possa resistere, (ride) e poi ho un grosso contraccolpo, ma dopo il DU c’è qualcosa che accade veramente. (Noël)

Le sessioni mensili alle quali partecipano Adèle e Noël da qualche mese, non comportano alcuna formazione su specifiche tecniche per la percezione, non viene appresa alcuna nuova pratica concernente il loro mestiere. Occorre comprendere che con il lavoro filosofico, il complesso processo della percezione, di sviluppare la capacità di esprimere con precisione quello che abitualmente percepiscono ma senza esprimerlo o condividerlo con altre persone, suscita questa evoluzione nella loro pratica quotidiana. L’obiettivo esplicito non è quello di apprendere un tipo di percezione alternativa, ma piuttosto è quello di imparare a parlarne, a comunicare sulla percezione. E constatiamo che questo lavoro sul pensiero cambia la percezione. Hanno constatato che nominandola, evolve.

Delle mani più intelligenti del cervello

Se l’evoluzione del pensiero di questi osteopati sul loro mestiere ha suscitato in loro un’evoluizone nella percezione, non deve condurci a pensare che la percezione osteopatica sia unicamente alle dipendenze del pensiero, dato che in alcuni casi è successo l’inverso: il pensiero può ostacolare la percezione attraverso le mani. Il racconto autobiografico di Alain Cassoura ne è un buon esempio, grazie alla grande onestà intellettuale di questo medico che racconta come sia entrato poco a poco nel mestiere osteopatico, vivendo delle forti resistenze dovute alle sue conoscenze in campo medico.

Come sentire un movimento di così piccola ampiezza se non sono convinto della sua esistenza? Una grande parte del mio apprendimento sarà condito con tali contraddizioni dove il mentale farà irruzione per bloccare tutto il sentire. (Cassoura, 2010 : 37)

Avendo io approcciato l’osteopatia a partire da una formazione medica analoga alla sua, ho fatto spesso l’esperienza di questa resistenza opposta alla percezione osteopatica, dovuta ad un pensiero troppo presente. L’esperienza successiva vissuta ad uno stage, mostra che il pensiero non è affatto assente nella percezione, ma che si tratta di un pensiero più intuitivo che discorsivo.

Mi metto al cranio dell’osteopata con il quale lavoro in coppia e tento di percepire una lesione, attraverso la visualizzazione. Entro dunque nel suo corpo, mi sposto lungo l’arto superiore destro, non percepisco e non vedo ancora nulla, cosa che non mi sorprende. Passo quindi a sinistra e là, senza alcuna particolare percezione nella mani, ho la convinzione che c’è un problema al gomito sinistro. Come se le parole “gomito sinistro” venissero impresse nel mio spirito. Non ho altri dettagli e non sarei capace di dire esattamente che cosa non vada in questo gomito. Continuo la mia esplorazione, nulla a livello del rachide, nulla all’arto inferiore sinistro. A destra discendo fino al ginocchio e più in basso quando ho l’impressione di perdermi, che non ci sia più nulla. E di nuovo, un’altra convinzione: caviglia destra.

Non sapendo bene cosa fare, dopo un momento mi fermo e dico al mio compagno che, senza saperne il perché, sono convinto che abbia dei problemi al gomito sinistro e alla caviglia destra. Con sorpresa mi dice: “è davvero incredibile la qualità della percezione che hai senza essere osteopata. Sono proprio i punti in cui ho avuto delle fratture”.

Come altri osteopati già incontrati durante lo stage, mi dice che ho una percezione molto sviluppata, “una mano eccezionale”, e che non oso fare affidamento sulla mia mano, che rifletto troppo ed è unicamente per questo che credo di non percepire. Concludendo mi dice: “La tua mano è più intelligente del tuo cervello…”.

Evocando l’intelligenza della mano che sarebbe superiore a quella del cervello, mi sembra che quest’osteopata non metta il pensiero nella mano, ma mi richieda di ascoltare una forma di pensiero suscitato dalla mano. Attraverso la mano, lascio spazio ad una forma di intuito che potrebbe venir reso inaccessibile da una reazione di censura da parte della ragione, considerato che io non avevo alcun motivo di pensare al gomito sinistro e alla caviglia destra. Il ragionamento aveva reso questa percezione inoperante, ma non possiamo neppure attribuire l’origine di questo unicamente alla mano, dato che l’esplorazione del corpo del paziente viene fatta secondo una conoscenza anatomica precisa, evocata coscientemente, e non da sensazioni fisiche. Se l’intuizione è potuta nascere è perché la percezione è stata guidata dall’anatomia, senza essere inibita da una forma di razionalità inadatta all’esercizio.

Conclusioni

L’analisi delle rappresentazioni della mano e delle sue relazioni con il pensiero in ambito osteopatico, ha permesso di mettere in luce alcuni elementi che ne sottolineano l’originalità e che permettono anche di misurarne i paradossi.

In osteopatia, la mano ha un valore simbolico forte se non addirittura identitario per la professione, nelle forme di espressione spesso complesse che associano la mano come attrezzo, come mezzo, come luogo della percezione quasi autonomo e come parte di un tutto che è il corpo del terapeuta. Se la mano è ciò che stabilisce il contatto con il corpo del paziente, almeno in un primo tempo, questo contatto fisico non è che il supporto di una relazione che va oltre. Il contatto della mano con il corpo è una metonimia di una relazione corpo-corpo, essa stessa inclusa in una relazione persona-persona.

Se alcune espressioni utilizzate dagli osteopati possono far pensare ad una certa autonomia di pensiero della mano, la quale sembrerebbe vedere, pensare ed agire per proprio conto, si constata che le esperienze descritte fanno appello ad una rappresentazione più complessa della mano e del pensiero, con interazioni continue. Il modo in cui il pensiero, la conoscenza anatomica, le domande interiori, vengono nutrite dalla percezione manuale, che di ritorno viene rimodellata, sono coerenti con le riflesisoni di Merleau-Ponty sulla percezione. La mano non è uno strumento al servizio del terapeuta il quale se ne servirebbe per esplorare il corpo del paziente, in quanto “il soggetto della sensazione non è un pensatore che nota una qualità”. Ma il terapeuta non è una semplice cassa di risonanza di ciò che percepirà la mano, “un mezzo inerte che verrà modificato da essa”. Il soggetto della percezione è “una potenza che è co-nata in un determinato ambiente di esistenza e si sincronizza con esso”. Lavorando su questo testo di Merleau-Ponty (2012 : 256), gli osteopati studenti sono stati colpiti nel ritrovare nelle sue parole questa nozione di sincronizzazione del soggetto con il mondo che egli percepisce, dato che la sincronizzazione è una nozione impiegata per descrivere la maniera in cui l’osteopata entra in relazione con il paziente, al fine di poter percepire.

Merleau-Ponty descrive in maniera sintetica come l’oggetto della percezione, i mezzi della percezione ed il soggetto, siano indissociabili. “Nella percezione, noi non pensiamo l’oggetto e non pensiamo il pensante, noi siamo l’oggetto e ci confondiamo con il corpo che ne sa di più di noi sul mondo, sui motivi e sui mezzi che si hanno per farne una sintesi” (2012 : 285). Allo stesso modo, qui è emerso che il corpo del paziente, la mano del terapeuta e la sua persona, possono essere distinti solo formalmente nel momento in cui si tenta di descrivere la percezione osteopatica.

Referenze

[1] Incontro con Benoît, osteopata a Lione, 40 anni. 4 febbraio 2011.

[2] Estratto dal dibattito sulla mano organizzato all’interno del Corso di Diploma di Filosofia dell’OSteopatia, Lione, 12 dicembre 2014. Tutte le citazioni senza referenza sono tratte dalle trascrizioni di questo dibattito.

[3] Incontro con Bob, osteopata a Lione, 39 anni, 5 dicembre 2014.

[4] Estratto da una lettera che ho ricevuto da Gérard, osteopata iscritto al Corso di Diploma, in seguito al dibattito organizzato in dicembre 2014

[5] Viola Frymann, osteopata americana, molto impegnata nell’osteopatia im ambito craniale. Il suo insegnamento aveva suscitato resistenze negli Stati Uniti, in seguito insegnò in Europa.

[6] Gesto abituale in osteopatia in ambito craniale nel quale l’osteopata pone la sua mano tra il sacro del paziente disteso e il lettino.

CASSOURA Alain, 2010. L’énergie, l’émotion, la pensée, au bout des doigts. Au-delà de l’ostéopathie. Paris, Odile Jacob.

LITTLEJOHN John, 1934. «Evoluzione e futuro dell’osteopatia». Discorso pronunciato davanti alla convention dell’Associazione degli Osteopati Riuniti il 12 ottobre 1934. Trad. P. Tricot. (on line), http://www.approche-tissulaire.fr, page consultée le 24 février 2015.

MERLEAU-PONTY Maurice, 2012 (1945). Phénoménologie de la perception. Paris, Gallimard.

SUTHERLAND William Garner, 2002. Testi fondatori dell’osteopatia in ambito craniale. Trad. H. Louwette. Vannes, Sully.